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Almodovar contro Ben Jelloun: la retorica violenta l’arte

 

«Assurda, stupida, un insulto irreale e scorretto».

 

Risponde così Pedro Almodovar all’accusa di «imperialista coloniale» che gli è stata lanciata sul giornale spagnolo La Vanguardia da Tahar Ben Jelloun lo scorso martedì 17 settembre. Come se non bastasse, lo scrittore francese ha anche elaborato le sue accuse: il premio Oscar per Tutto su mia madre sarebbe razzista, e si è rifiutato di andare a prendere il premio che gli era stato assegnato al Festival di Marrakesh - iniziato il mercoledì successivo - per pure ragioni di snobismo culturale. Almodovar, secondo Ben Jelloun, francese di origini marocchine, fa parte del «crescente numero di spagnoli con pregiudizi anti arabi», figli della «stupidità politica aznarista», vittime di «pressioni mediatiche e politiche». Insomma, ancora una volta la politica tenta di insozzare l’arte.

 

Almodovar, inizialmente, è incredulo: «La lettera di Ben Jelloun  è così assurda che non riesco ancora a credere che non si tratti di uno scherzo di cattivo gusto. In che mondo crede che io viva, il signor Ben Jelloun?». Poi, spiega i motivi della sua assenza al festival cinematografico nella capitale culturale del nord Africa e nega ogni complicità politica: «Sono grato al Festival di Marrakesh per l’omaggio che mi ha reso. Ma ho preso da solo la decisione di non andare, a causa di un’agenda assai piena. Per gli stessi motivi non sono potuto recarmi ad agosto a Telluride (Usa), Toronto e Gerusalemme. E non potrò andare questo mese a Rio de Janeiro e in Islanda». E si schernisce delle accuse di razzismo culturale, dicendo solo: «Ricordo ancora il giorno che ho scoperto per la prima volta la piazza di Yema el Fna, proprio a Marrakesh, come una delle emozioni più forti della mia vita: tutto ciò che ho voluto esprimere nei miei film è presente su quella piazza quotidianamente».

 

La diatriba è certo spiacevole: quando anche gli intellettuali si abbassano a povere accuse prive di spessore, evidentemente si sono raggiunti livelli bassissimi. Cosa che non stupisce poi più di tanto, viste le continue menzogne che il mondo mediatico ci propina ogni giorno riproponendo squallide dichiarazioni politiche.

 

Così, se la Spagna e il Marocco fingono di ristabilire normali relazioni dopo quello che molti ancora definiscono l’«incidente» dell’isolotto Perejil-Leila (prezzemolo o corallo, dal lato spagnolo o nord africano), le tensioni fuoriescono tra intellettuali che dovrebbero essere superiori e spingere invece, attraverso l’arte, l’umanità a riflessioni sincere e in grado di comprendere una visione di più ampio respiro. Forse, a modo loro, maldestramente e in maniera paradossale, però, lo fanno. Se Pedro Almodovar e Tahar Ben Jelloun si accusano su missive spedite a quotidiani, è evidente che l’ipocrisia con cui si è risolto l’«incidente» non può durare.

 

Ricordiamolo. Per appena più di una settimana, il luglio scorso, 12 militari marocchini avevano occupato un isolotto grande quanto un campo di calcio, con arbusti di un metro e disabitato da anni. Non comparendo nemmeno nei trattati pre e post decolonizzazione, era difficile stabilire la sovranità dell’isola. Intervennero l’Unione europea, le diplomazie di mezzo mondo, i militari spagnoli, che dopo un po’ rioccuparono in forze il «loro territorio». A un certo punto una nave marocchina presiedeva le coste contro una decine di vessilli battenti bandiera spagnola. Sembrava di essere tornati all’Ottocento. E ci fu chi ebbe il coraggio di dire che i marocchini non opposero resistenza: come avrebbero potuto? Infine, Colin Powell, fornì un’indiscutibile interpretazione di sovranità: l’isolotto, che si trova a 200 metri (soli 200 metri) dalle coste del Marocco, appartiene alla Spagna, sentenziò il vecchio e indiscusso zio Sam. I marocchini tornarono sconfitti a Rabat e lo  status quo  venne nuovamente deciso a tavolino da estranei. Senza risolvere nulla, e cioè i veri problemi di cui l’incidente rappresentava solo un sintomo.

 

Nel nuovo secolo, fatto di, speravamo, nuovi ideali e spinte democratiche moderne, ma invece di vecchi problemi, la Spagna ancora (cioè dai tempi del colonialismo) ha piena e legale sovranità sulle città di Ceuta e Melilla, sugli scogli di Vélez de la Gomera e al-Alhucemas e sulle isole Chafarine, tutti in territorio marocchino. La questione del Sahara occidentale, dopo e nonostante sanguinose guerre, è ancora irrisolta, senza che la Spagna aiuti o prema in alcun modo e con il popolo saharawi che ancora non ha diritto non tanto a uno stato o ad autonomia decentrata, ma nemmeno a un referendum (che pure era stato loro concesso dall’Onu). La Spagna ricatta il Marocco ricordando all’ambasciatore (o chi per lui, visto che il paese nord africano ha ritirato la rappresentanza diplomatica in Spagna l’ottobre dell’anno scorso a tempo indeterminato non ancora scaduto) che il Marocco è il «primo beneficiario degli aiuti spagnoli» e che «ogni anno 1.5 milioni di marocchini attraversano tutta la penisola iberica per tornare a passare le vacanze al paese d’origine» (lasciando forse intendere una politica di Aznar aperta nei confronti dell’immigrazione?). Il dominio su Gibilterra, punto cruciale, viene persino offerto in comproprietà alla Gran Bretagna.

 

E in questo scenario davvero almodovariano - ma del bell’Almodovar delle crisi di nervi -, anziché, sarò banale, buttare giù una sceneggiatura o un libro, o occupare loro stessi l’isola del prezzemolo color corallo per filmare le gradazioni di blu di un mare affascinante, gli artisti scazzano su chi deve andare dove e perché a ritirare i premi. Almodovar saprà perfettamente in che mondo vive, ma noi, in che mondo siamo finiti?

Camilla Lai