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Moby: 18 (Extralabels/Mute)

A quanto pare, il mercato delle tute da astronauta ha avuto un’improvvisa impennata nell' ultimo semestre. Dai torinesi Subsonica a Moby, lo space-look, o Armstrong-style che dir si voglia impazza. Peccato però che (in entrambe i casi) la musica non sia granché e, anche se ammetto spudoratamente di aver canticchiato per settimane We are all made of stars sotto la doccia, l’ascolto del successore di Play mi ha lasciato del tutto indifferente. Interessante il video girato alla maniera di Paul Thomas Anderson (il riferimento è Boogie Nights), con apparizioni di ‘stelle minori’ del sogno americano come il vecchio gattone del porno Ron Jeremy e del simpatico Toxic Avenger della Troma, tuttavia qui siamo all’effetto fotocopia, alla replica di un disco non esattamente memorabile che due anni fa aveva venduto come il pane facendo gridare al miracolo gli estimatori delle musiche da spot.

Moby non è Tricky, non è i Massive Attack e probabilmente non avrà mai il lampo folle che ha permesso ad Aphex Twin di infettare la pubblicità televisiva servendosi di schegge sonore che fanno a meno dei voleri della committenza. Troppo pulito, Moby. Non osa, non sorprende, non sperimenta.

Nessuna differenza, dunque, tra Play e 18. La formula è la stessa: un copia e incolla di campionamenti  vocali soul-gospel anni 60-70 al servizio di composizioni asettiche e tediose (chiunque sostenga che Moby sia un genio puzza di pubblicitario d’assalto). Un disastro lungo 71’ e 17’’. Angie Stone, ospite nella tentazione hip-hop newyorkese di Jam for the ladies fa quel che può per prestare soccorso alle orecchie dell’ascoltatore. Lei ha classe, è l’unico soffio vitale dell’album (mentre Sinéad O’Connor in Harbour è il solito funerale).

Riflessione a margine: i prezzi dei dischi continuano ad essere proibitivi. Non fidatevi dei lanci promozionali, delle ‘settimane degli sconti’ nei negozi: i cd sono salati. Lo scorso 24 maggio, l’associazione dei discografici americani (Riaa) ha puntato l’indice contro Audiogalaxy, successore di Napster nel servizio di scambio di mp3 su Internet. L’aspra guerra alla pirateria continua in nome del business (più che dell’artista danneggiato dal traffico pirata), però circolano dischi che non valgono un cent. Andate dove vi porta il cuore.

(V. L.)