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PARLA CON LEI

 

L'ultima provocazione di Almodóvar   di   Davide Cavallo

Sono le parole che danno voce al nostro sentire, che definiscono inequivocabilmente le nostre emozioni, i nostri pensieri, ed è il parlare, o il non farlo, che determina le situazioni e gli accadimenti nella nostra vita. È l’amore che ci tiene in vita (o che ci risveglia dal coma), che estremizzato può far morire ma la cui mancanza ci rende moribondi. Ed è proprio l’amore visto come elemento fondante dell’esistenza, come regolatore del nostro agire e del nostro comunicare, il tema trattato e fulcro di quest’opera. Ma Almodóvar, guascone e provocatorio come sempre, non sceglie di certo la via più semplice per parlarci al cuore, anzi, dimostra un coraggio fuori dal comune ed eleva a simbolo d’amore un personaggio (l’infermiere) tumorale, senz’altro psicolabile ma di certo sincero e genuino nella sua semplicità disarmante. E quello che nelle nostre strade diventerebbe un reietto, prima o poi internato, quello che mina la nostra normalità ed è capace di gesti estremi, logici e sentimentali dal suo punto di vista ma condannabili dal nostro, il personaggio che qualcuno non farebbe fatica a descrivere come un mostro o come un cancro da estirpare, è proprio colui che ci darà il senso e l’idea di un sentimento, troppo spesso banalizzato, che risponde alla parola: Amore. Così Almodóvar ci costringe a fare i conti con la nostra morale, la nostra presunta normalità, e ci accompagna con mano sicura e sublime attraverso una giostra di vite e di coppie che pare un viaggio di vita e di morte, al termine del quale colui che pensavamo essere un tumore non possiamo fare a meno di considerarlo, sì un tumore, ma “benigno”. Al termine del quale abbiamo riso, pianto e goduto, come uomini prim’ancora che come spettatori. E l’infermiere è il solo che parla, sempre e comunque, è il solo che crede nella forza della parola e quindi dei sentimenti, è l’unico che determina attraverso le sue azioni un esito positivo. Tutti gli altri, titubanti, che rimandano la comunicazione (io e te dopo dobbiamo parlare) o che l’omettono nascondendo la verità (Marco nel finale) verranno puniti (ma non condannati perché Almodóvar, amando la vita, li adora tutti), dal destino. Ma Marco verrà anche ricompensato, è l’alter ego del regista, è il sentimento, colui che piange sempre, e soffre, che si concede e si dà agl’altri.

Il disegno è chiaro, il messaggio pure, e viene perseguito senza che lo spettatore se ne accorga se non a mente fredda; grazie ad una regia perfetta e leggera (malgrado innumerevoli salti temporali e l’uso di didascalie) il film scuote i sensi e attraverso il coma suggella la vita nella morte. Almodóvar filma con la stessa passione che arriva a comunicarci e costringe lo spettatore a viversi il film emotivamente piuttosto che intellettualmente, insomma, espone la vita e non possiamo fare a meno di starci. Quest’ ultima opera segna la completa maturazione artistica (già anticipata in Tutto su mia madre) di un regista, tra i pochi nel panorama cinematografico odierno a saper narrare la vita in tutti i suoi aspetti, tristi o gioiosi che siano, tra i pochi che sia riuscito, a suo modo, ad aggiornare il melodramma Hollywoodiano. Pedro Almodóvar è la versione moderna, anticonformista e un po’ acida, di Douglas Sirk.

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Parla con lei:  Almodóvar torna al mèlo  di Ilaria Mulè

Produzione Spagna 2002 Regia Pedro Almodovar Cast Javier Camara, Leonor Watling, Rosario Flores, Dario Grandinetti, Geraldine Chaplin Musica Alberto Iglesias Distribuzione Warner Bros

Dopo Tutto su mia madre Almodóvar torna al mèlo con Parla con lei, ribadendo una congenialità a questo genere che arricchisce di due brevi sequenze di teatro- danza. Café Muller e Masurca Fogo sono le due coreografie firmate Pina Bausch, scelte e girate dal regista per aprire e chiudere il film. Almodóvar prosegue un omaggio alle arti che intrecciandosi danno luogo a una dimensione estetica profonda, totale, l’unica a poter rispondere al dolore, se non a spiegarlo, a calmarlo. E lo fa con uno stile maturo, contenuto, totalmente solidale con i suoi personaggi che ci restituisce con sguardo appassionato, meno divertito e ironico che in passato, più complice e attento. Con modi non sempre diretti e dichiarativi, fa affiorare le personalità di Lydia, Marco, Benigno e Alicia; ne articola le storie in un intrigo affettivo in cui l’amore e l’amicizia si rincorrono e si cedono il passo. Marco crede di amare Lydia. Idem per Lydia. Benigno ama Alicia che amerà Marco. Ma non è un film d’amore, piuttosto un confronto sui grandi temi dell’esistenza come ha detto senza giri di parole Almodóvar stesso, per entrare nell’età adulta, per sentirsi più libero.

Due donne, due fatti gravi che le portano al coma, due diversi esiti di cui uno solo di vita. E tutt’intorno frammenti di un vissuto da riportare a unità attraverso i flash- back, identità da ricostruire gradualmente, per ricomporre ritratti umani in cui pulsioni e motivazioni profonde dell’esistere si rispecchiano nella professione: il torear per Lydia, la danza per Alicia. Scopriamo un sottile gioco di competizione e affetto tra figlie e padri, che porta Lydia ai rischi dell’arena, Alicia a cercare se stessa al di fuori delle coordinate freudiane dello studio paterno di psichiatria. Anche i protagonisti maschili gareggiano con modelli di sensibilità tipicamente femminili, dimostrando una straordinaria dedizione nel prestare cure nel caso di Benigno; ricercando un sentimento esclusivo nel rapporto di coppia nel caso di Marco.

Rompere luoghi comuni, rinnovare tipologie psicologiche trasfigurandone i tratti: è la vitalità dell’ approccio di Almodóvar in una società spagnola in cui l’ancièn regime è durato fino all’altro ieri. E il cinema trova il tempo per qualche rivoluzione di costume.

Piantata dal Nino de Valencia, Lydia in tv pianta in asso la giornalista, che durante l’intervista le fa domande non pattuite sulla sua vita privata. A questo punto Marco decide di incontrarla. La fierezza di Lydia si attenua quando pensa che lui condivida la sua stessa passione per i tori, ma è solo un pretesto per conoscerla (è scrittore di libri di viaggi).

Abituata ad affrontare tori nell’arena, Lydia ha il terrore dei serpenti e urla quando ne scopre uno in casa sua. Marco che l’ha accompagnata esce di corsa dalla macchina, uccide il serpente e la porta in un hotel. Questo gesto è l’inizio di un rapporto di fiducia, che si rivelerà in seguito più di stima che d’amore. Le lacrime di Marco per il canto di Caetano Veloso, durante una serata estiva in una Spagna di colline polverose e saudade brasiliana, sono scaturite dal ricordo di un precedente amore che la memoria trattiene, di commozione che vorrebbe condividere.

Finalmente anche gli uomini piangono. E sono capaci di sensibilità e fanno innamorare per questo. Anche le donne possono essere torere o ballerine, danzare o affrontare le arene. Sono chiamate a sfide continue.

Almodóvar libera da falsi stereotipi chi ancora c’è rimasto intrappolato, svincola da abitudini concettuali chi costruisce ruoli sessisti su una meccanica divisione di qualità e prerogative, che non sempre liberamente maschio e femmina decidono come e quanto farsi appartenere. E fa lo stesso con esperienze limite come il coma, che sembra semplicemente un sonno da cui svegliarsi prima possibile. A rendere tutto più facile è il lirismo esasperato di Benigno, infermiere innamorato che crede nei miracoli, che accudisce Alicia fino a compiere un atto che è di passione e violazione insieme, perché lei non l’ha potuto scegliere.

Benigno racconta ad Alicia i minuti iniziali di Cafè Muller, pezzo storico della Bausch, anche se lei non può sentirlo. E racconta le emozioni che aleggiano in sala, delicate e struggenti, che passano dalla scena ai sedili, di cuore in cuore. In sala accanto a lui vede Marco, che riconosce poi in ospedale perché anche Lydia è in coma. Comincia una formidabile amicizia tra uomini che condividono l’attesa di un risveglio e uno strano amore per donne che però non li ri-amano. In quel momento sono vive ma ridotte allo stato vegetativo, eppure la loro vita sentimentale prosegue: Marco abbandona il capezzale di Lydia e la loro storia finisce perché scopre che lei non ha smesso di amare il Nino di Valencia, ritornato dopo aver rotto con lei per antagonismo tra toreros, immaginiamo. Alicia apre meccanicamente gli occhi nel momento in cui Marco (che forse si innamora di lei in quel momento) si affaccia nella sua stanza . Dopo una intera vita di assistenza prestata a sua madre ora morta, Benigno si prende di nuovo cura di una donna, ma va ben oltre le prescrizioni infermieristiche consentite. Dopo averla cosparsa di una lozione aromatica non riesce a resistere alla seduzione involontaria esercitata dal quel corpo, che incarna un’ossessione. E nonostante l’ironia dell’ olio al rosmarino (per altre degustazioni), la vicenda si colora tragicamente: per lui Alicia è un’immagine mentale che morbosamente inseguirà fino al suicidio e Alicia dovrà portare avanti una gravidanza inconsapevole, paradossalmente a sua insaputa. Ma sarà proprio l’atto di Benigno a riportarla in vita, in un miscuglio di sopraffazione e vita.

Come ben detto da Emanuela Martini, Parla con lei è "girato con un’aderenza raffinata e disarmante alla concretezza dei corpi", che prima danzano e combattono nelle arene, poi giacciono immobili difendendosi con i fluidi (il sangue mestruale di Alicia) o mostrando ferite come uniche e autentiche medaglie di valore. Ancora fluidi nelle lacrime di Marco e Benigno al parlatorio del carcere di Segovia, mentre comunicano telefonicamente separati dalle schermate trasparenti dei pannelli divisori.

Diversamente accade in un altro mélo, Le lacrime amare di Petra Von Kant di R. W. Fassbinder. Lì ci si ammala proprio perché non si piange, nonostante i fluidi contenuti nel titolo. Nulla è rimasto di umano dopo la fine di un amore reso crudele e asfittico dalla competizione, impossibile un’autentica amicizia tra donne, ugualmente minata da interessi personali e confinante con l’amore saffico. Il rancore sommerge tutto e le lacrime versate sono di resa e di rabbia. Fassbinder è impietoso con sé stesso e i suoi personaggi, non accetta le sue e le loro fragilità, confina i rapporti nell’unico schema che sempre uguale torna e ritorna, quello del carnefice e della vittima. In Almodóvar i sentimenti non si arrendono e quindi non muoiono, anche se non sempre vengono rivelati. L’occhio della m.d.p è vicino, discreto, a sfiorare i personaggi centrandoli in moltissimi Pp senza mai essere invadente. Nonostante una modalità di ripresa che privilegia gli interni, il film respira ampio. Le prove estreme che vivono i quattro protagonisti sono rivelatrici di vita quanto più la vita è minacciata.

Trauma, vita, morte, stadi intermedi del coma. Almodóvar in una riuscita orchestrazione di caratteri maschili e femminili racconta esperienze di coraggio, fierezza, paura, diffidenza, spiritualità, sensualità, prontezza, solidarietà, riconoscenza.

A permettere in noi spettatori uno stato d’animo partecipe ma non estenuato è anche la straordinaria colonna sonora: insieme alla colomba di Cuccuruccucù Paloma (altra cosa rispetto alla canzonetta made in italy) voliamo alto anche noi. E sorridiamo nella sequenza del film muto in b/n di ideazione almodovariana, L’amante menguante. Altro cammèo da segnalare è la "vestizione" di Lydia prima di entrare nell’arena; lo sguardo ravvicinato della m.d.p stringe in dettaglio sui fini ricami in oro della divisa, indugia su bottoni e paramenti, cauto tributo alla tradizione. Possibile durante il film è anche una riflessione sulla religione; ricorre un paio di volte il panico alla vista di un serpente, rettile che è antico retaggio simbolico dell’immaginario cattolico. Una battuta della sorella di Lydia sembra suggerire che altra cosa è la fede, che non si limita ai santini di piccoli altari trasportabili e pronti all’uso nonostante lei stessa ne faccia ricorso.

" Il femminino si eleva sul mascolino", frase ripetuta più volte dall’insegnante di balletto di Alicia, macchietta comica erede di Chaplin, rilancia la polarità di caratteristiche e diversità fra i sessi. La fine di Parla con lei mostra un momento di Masurca Fogo, spettacolo dedicato a Lisbona, in cui la bellezza della coralità dei balletti di Pina Bausch si alterna a singoli episodi che vanno visti isolatamente. "Sono un’insegnante di ballet, niente è semplice". Frase contraddetta dalla nascita di un nuovo amore.