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DEATH IN VEGAS: Satan’s circus (Drone)


Al quarto album, Tim Holmes e Richard Fearless decidono di cambiare mappa per arrischiare nuove

DEATH IN VEGAS: Satan’s circus

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direzioni musicali. Dichiarano con candore tipicamente anglosassone di non amare gran parte del precedente Scorpio rising, disco che invece viveva di una particolarissima ricerca tra suoni orientali e occidentali e che, a distanza di due anni dalla sua uscita potrebbe addirittura tornare in classifica grazie allo spot di un telefonino ulta high-tech (avete presente il bel clip di 30” giocato su uno split screen che racconta la storia notturna di un ragazzo e di una ragazza? Il brano è Hands around my throat).

   La svolta coincide con la nascita dell’etichetta personale Drone e l’abbandono del colosso BMG (parziale, visto che tra i credits appare la dicitura “All tracks published by BMG/Warner Chappell”). Probabilmente, anche gli scazzi in studio di registrazione con gli Oasis avranno avuto il loro peso specifico su una svolta più radicale: nelle composizioni nuove di zecca i Death in Vegas hanno eliminato dalla tavolozza sonora le voci umane, in favore di undici viaggi elettronici di sapore vintage (yeah, kraut-rock più Kraftwerk). Ciò che resta, dopo tale drastica sottrazione (Susan Delane in Heil Xanax è ridotta a un’ugola che ha prodotto davanti al microfono una serie di vocalizzi successivamente riprocessati) è una musica che, rifiutando il legame con la forma-canzone, a un primo ascolto rischia di risultare monotona,  salvo poi rendere manifesto un collage frattale ricco di bagliori, pulsazioni, melodie seducenti in parte riconducibili a certa psy-trance astratta, in parte alle zone più dark di The Contino sessions (1998).

   Per apprezzare Satan’s circus nella sua totalità, disintossicandosi dalla fase precedente, occorrono ripetuti ascolti e l’aiuto del bonus cd Live at Brixton offerto con la prima tiratura (dodici classici in fila: Leather, Girls, Help yourself e tutti gli altri). Le cupe linee di basso fortemente influenzate da Jah Wobble (sempre Heil Xanax, traccia numero tre, il marchio P.I.L. bene in vista), costituiscono un ulteriore legame con il passato, o almeno con la musica in cima alle preferenze del duo. L’iniziale Ein fur die damen sprigiona una melodia da viaggio astrale (Sun Ra? I Can?) che resta appesa alle orecchie anche Death In Vegasquando si tratta di far spazio alla successiva Zugaga, tappa obbligata nella proto-trance dalle geometrie infraumane di stampo teutonico. Black lead offre un ambiente paludoso di loops bassi, da catatonico trip-hop industriale, da ultima, alienante domanda concessa alla specie umana. Un pop neworderiano si affaccia quindi in Kontrol appoggiandosi a una parata di effetti e filtri del sintetizzatore: niente di barocco, tutto è sotto controllo. Quasi bucolico l’incedere di Anita Berber affidato alle chitarre di Ian Button e Danny Hammond e ad un crescendo continuo molto King Crimson. La spinta ritmica di Head ricorda inizialmente certe cose degli ultimi Sonic Youth, a metà entra a casa di Robert Smith e fa man bassa di memorabilia Cure periodo The Head on the door.

   Splendido. Sorprendente. ‘Fanculo quelli che pensavano che lo spettacolo era finito dopo The Contino sessions. Questo è un nuovo inizio, un reload coraggioso e più che riuscito per questo strano progetto che dalla sua nascita ha sintetizzato un interessante ibrido di pop e sperimentazione: via la parure degli ospiti di grido (Iggy Pop, Jim Reid, Bobby Gillespie, etc.), si riorganizzano i codici puntando sui raggi supplementari del “Circo di Satana”, sulla divinazione di una realtà parallela ancora (più) seducente attraverso scorie del passato della musica elettronica.

(J.R.D.)


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