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DISSENTERIE DELL’ARTE

 

Ci sono omicidi ben riusciti, in cui la vittima è infine sacrificata alla storia, violentata delle sue carni e censurata delle pudende, delitti condotti a termine e macchiati di uno scarlatto non mai immaginato; ma ci sono crimini abortiti all’apice della loro conduzione? Assassini colti da dissenterie, coliti spastiche, incontinenze improvvise? Politici comizianti che nel ventilare nuovi stimoli agli astanti vengano disarmati dell’eloquio da stimoli d’altra specie? Cardinali costretti a sospendere le loro esegesi domenicali in balìa a traffici intestinali non sospetti? Pianisti che sul finale della Patetica, suonati da gastroenteriche querele, imperlati del sudore da esse indotto, rinuncino all’ultimo do minore e scappino via per andare ad evacuare in frac?

Ecco il deretano costringerci alla sua mercè, l’intestino beffarsi dell’arte, l’apparato gastrointestinale infischiarsene del bene e del male, lo sterco farsi un baffo della società, dei diritti, dell’avvenire. L’uomo? Un coso con due gambe (e orifizi più di due) che scorazza per il pianeta le proprie enteriche merci, fino a che esse non impongano l’irruzione forzata per reclamare l’aria aperta. La mercanzia cui ci riferiamo sembra diligere tali camuffamenti; travestita da società benpensante, essa, prima ancora di espletare le sue velleità nel campo dell’agricoltura, si crogiola nel suo  involucro. Ma ben presto, vilipesa dalla noia del suo contenitore, chiede anch’essa di respirare. Tal volta, gentile, bussa e chiede permesso, tal altra, imperiosa, sfascia, sfonda la porta (in qualche caso aperta). Infine, una volta fuori, serba l’abominevole fragranza dell’umanità.

Questo travaglio intestinale, che dal piloro dà inizio alla putrida odissea, si scontra presto col concetto che le sue vittime hanno di esso. Il dramma del mondo consumistico in cui si sguazza deriva profondamente da questa fatale discrepanza. L’uomo insomma, rinnegando, disconoscendo suo il fertile prodotto, s’eleva di rango, si civilizza. Basti osservare i costumi dabbene che ci siamo imposti: latrine in ceramica trapuntata d’oro, carte da culo doppio velo alla camomilla (la camomilla schiarisce e chi non vorrebbe un tocco di meche sulla recondita peluria?), sedute ergonomicoavvolgenti, profumatori da water dal fragrare morbido e soave, tappeti persiani, luci soffuse calde paglierine, fanno da pacato sublime contraltare allo sforzo e agli schiocchi fragorosi che irrompono nella quiete perfetta. Infine spazzoloni dalle linee favolose e superbe provvedono al ripristino dell’originale candore di cui si forgiano i WC. Questo accanimento nel non lasciare tracce, questo aborrire la turpe materia che produciamo è il sintomo di una società che versa ormai comatosa nel brillare del suo decoro. I sublimi pezzi da bagno che arredano i nostri appartamenti, frutto degli studi aerodinamici e balistici dei migliori designer, costituiscono un’intelligibile metafora del genere umano, bei cessi lucidi che orbano puteolenti segreti. E il volo? Le sublimi gaiezze del delirio artistico? Le proporzioni? L’elevarsi dello spirito? La musica? La tragedia? Credetemi signori, la cima dalla valle dista un nulla. Ed il poeta in bagno si contorce meditando, soffre il pittore, ma stupisce sempre dei colori prodotti, il musico atterrisce ma vagheggia i palpitanti suoni che si producono evacuando. Il mondo dell’arte intiero dissente. Con quanta superficialità si dà il tiro allo sciacquone, di botto, addio.

 

Gianluca De Rubertis