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DAVID PEACE: TOKYO ANNO ZERO
(Il Saggiatore, pp. 448, € 17,00; traduzione di Marco Pensante)

 

DAVID PEACE: TOKYO ANNO ZERO

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Dall’Inghilterra del Red Riding Quartet e di The Damned Utd (di prossima pubblicazione anche da noi) al Giappone, patria adottiva di David Peace ormai dal 1994. Lo scrittore britannico risiede attualmente a Tokyo, lì si è sposato ed ha avuto tre figli. E proprio a Tokyo ha ambientato il primo tassello  di una nuova trilogia sospesa tra storia e cronaca nera, un ulteriore, disturbante lavoro di scavo nel significato della presenza del male all’interno dell’animo umano.

   Peace si documenta in modo accurato sui fatti storici, ricostruisce gli ambienti,  innesca una narrazione realistica su base documentaria centrando il difficile equilibrio fra storia e fantasia. Storia come indagine sull’uomo. Storia che nel farsi romanzo, nel suo intrecciarsi con l’invenzione rivela modo in cui lo scrittore conosce la realtà e la affronta di petto catapultando il lettore in una visione allegorica della Storia.

   Agosto del 1945: Showa (nato Hirohito), il 124° Imperatore annuncia la resa incondizionata ai colonizzatori americani. Il Giappone è appena uscito con le ossa rotte dal secondo conflitto mondiale e si trova sotto il controllo del Supreme Commander for the Allied Powers (SCAP), appoggiato dall’Allied Council for Japan. Parole di Douglas MacArthur ai giapponesi: “Vi condanno alla democrazia”. La monarchia resta in piedi solo perche i vincitori paventano una spinta del paese verso il comunismo a causa di una troppo repentina instaurazione repubblicana, in realtà l’Imperatore resta al suo posto privo di di ogni effettivo potere, come puro elemento ornamentale.

   Agosto 1946: Tokyo è una città polverosa, devastata, un posto da Far West infestato da bande criminali. Manca la legge, manca tutto e una fetta consistente di popolazione è in ginocchio, sta morendo di stenti. Muoiono anche delle ragazze, colpite dalla mano di un inafferrabile assassino (nella realtà, prima ancora che nella finzione letteraria, il nome del serial killer è Yoshio Kodaira). È la voce in presa diretta dell’ispettore Minami a narrarci tutto questo. Un poliziotto spaventato, povero in canna, dipendente dalle pillole tranquillanti. Un vinto in una nazione di vinti, di piagati, stravolti e sopravvissuti che si affollano nelle stazioni, deambulano senza meta al mercato nero, nei quartieri di fabbriche adattate allo sforzo bellico, di dormitori occupati dagli operai e poi evacuati: i bombardamenti hanno spazzato via tutto. I bombardamenti hanno umiliato la speranza.

   Topi. Merda. Sudore. Ignominia.

   Viene in mente Nora Inu, un film di Akira Kurosawa del 1949 noto da noi come Cane Randagio e vengono in mente anche la faccia e il corpo di Takeshi Kitano, i suoi sguardi lenti, laterali. Viene in mente, per capirci, il Kitano di Violent Cop e di Sonatine perché l’ispettore Minami compie (e fa compiere al lettore) una descentio ad inferos accompagnata da un  processo di deroizzazione chiaro fin dall’incipit: il poliziotto ha prurito alla pelle; il poliziotto ha prurito ai capelli e fa sogni che non desidera affatto sognare. Il poliziotto è colpevole di qualcosa ma sa di non essere solo perché l’intero mondo che ha intorno è colpevole: “Ricordo quando le bombe sono cominciate a cadere su Mitaka. Ricordo l’evacuazione, verso casa della sorella di mia moglie a Kōfu. Ricordo il binario su cui ci siamo separati. Ricordo il treno su cui se ne sono andati. Ricordo le loro lacrime, il pensiero che loro sarebbero vissuti e io sarei morto. Poi, quando sono cominciate a cadere le bombe su Kōfu, quando perfino sua sorella le ha detto che portava iella, ricordo il loro ritorno a Mitaka. Ricordo il binario e ricordo le mie lacrime…”  

   Un maleficio: tutto il marciume, tutto il dolore che può lasciarsi dietro una guerra, la lacerazione che disgrega amore e compassione sono in queste pagine di orrori dilatati sul piano visionario e su quello espressivo. Fa male - e tanto - leggere David Peace, autore che non risponde agli stereotipi di una letteratura sobria e rassicurante, non si preoccupa di confortare i suoi lettori quanto piuttosto di spingerli nella bufera per farli dialogare con un presente privo d’ossigeno. E lo fa addentrandosi sempre più in un grado zero di scrittura adeguato all'annichilimento di storia e personaggi.  Peace lavora sul ritmo, battendo sui tasti essenziali e raggiungendo vette evocative superiori a quelle di altri suoi colleghi. Non basta: Tokyo anno zero è un libro che aggredisce il lettore con la stessa energia feroce, densa e tumultuosa de La Pelle di Curzio Malaparte. Profondamente triste nel suo concentrarsi sulla perdita del senso della vita come bene primario; perdita sostituita in toto dalla follia dell’animale uomo.

 

Nino G. D’Attis

 

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