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"Una volta un tizio stette tutto il giorno a frugarsi in testa cercando pidocchi. Il dottore gli aveva detto che non ne aveva. Dopo una doccia di otto ore, in piedi un’ora dopo l’altra sotto l’acqua bollente a sopportare le stesse pene dei pidocchi, uscì e s’asciugò, con gli insetti ancora nei capelli; anzi ne aveva oramai su tutto il corpo. Un mese più tardi gli erano arrivati fin dentro i polmoni."[1]

Che vita ha fatto Philip Kindred Dick? Molte vite, probabilmente. Alternate/sovrapposte a quella reale, da ‘artista di merda’ che, solo dopo molti stenti, a ridosso della fine, riuscirà a beneficiare di un breve momento di agiatezza economica.

Molte vite nella fame (gli scrittori devono nutrirsi, muoversi in un mondo di tasse, ex mogli, avvocati, spese mediche) e nella gloria (sovente postuma).

Unico collante: i pidocchi. Le voci, le facce, le storie che invadono Dick vissute dallo scrittore come una forza vitale ed una maledizione. Colonie di pidocchi si insediano in un terreno particolarmente fertile.

"Ho scritto e venduto ventiré romanzi, e sono tutti orribili, tranne uno. Ma non so di preciso quale sia."[2]

Le storie-pidocchi proliferano, premono per uscire allo scoperto infischiandosene delle etichette, dei critici altolocati, dell’ostracismo accademico nei riguardi di una letteratura ‘bassa’, ‘popolarè o ‘di consumo’ che dir si voglia. Dibattiti, seminari, crisi del mercato editoriale non hanno il potere di intaccarle. Solo la scomparsa del genere umano potrebbe minacciarne la sopravvivenza.

Parafrasando Ballard, potremmo dire che P. K. Dick era se stesso e, nel contempo, la forma plasmatagli attorno dai molti universi visitati.

C’è il piccolo Philip, nato a Chicago il 16 dicembre 1928, che sopravvive alla gemella Jane, portando i segni di questo lutto in molte delle sue opere (e in particolare nel romanzo Scorrete lacrime, disse il poliziotto) e c’è "l’uomo di casa" appassionato di fumetti e canzoni da cow-boy che a cinque anni, dopo il divorzio dei genitori in piena Grande Depressione, resta a Berkeley con la madre "in una casa enorme e triste". C’è, ancora, il dodicenne folgorato dalla lettura di una rivista acquistata per sbaglio: Stirring Science Stories (e quello, in materia di background, fu più o meno l’inizio). In Divine invasioni – la vita di Philip K. Dick [3] , Lawrence Sutin, riporta i tentativi di Dick di pubblicare un giornale in proprio: l’ultimo, datato agosto 1943, si chiama The Truth, ovvero ‘La Verità’. Proprio in The Truth fa la sua comparsa Future-Human, personaggio a fumetti che vive nell’anno 3869 e si oppone ai malvagi correndo in soccorso dei più deboli: l’interesse del futuro scrittore per la fantascienza è già germogliato.

"Future-Human, campione della giustizia, difensore degli oppressi. Pochi gangster osano opporsi a lui; e se lo fanno vengono ben presto sgominati."

Più avanti, emergeranno altri P.K. Dick: l’esperto di musica classica promosso da semplice ragazzo delle pulizie a commesso in un negozio di dischi; lo studente universitario pacifista; il tossico, il paranoico, l’uomo dei cinque matrimoni fallimentari, il cittadino americano che in pieno maccartismo partecipa alle riunioni dei gruppi di sinistra e finisce nel mirino dei federali, il vincitore del Premio Hugo 1963 per The man in the high castle, il mistico che nei primi mesi del 1974 riceve nottetempo misteriose apparizioni che lo spingono a scrivere le circa 8000 pagine di un libro intitolato Exegesis.

La mole di racconti, romanzi, saggi, Anthony Boucherprodotta da P. K. Dick ci parla di un gigante straordinariamente sensibile. Nel 1952, dopo aver frequentato a lungo la casa dello scrittore Anthony Boucher e pubblicato il racconto Roog sulla rivista Fantasy & Science Fiction, trovò un agente, Scott Meredith e riuscì a piazzare un' altra storia (The Little movement), scritta all’inizio di un decennio particolarmente fertile. Non sopportava Ray Bradbury, autore che a suo giudizio apparteneva alla categoria degli artisti incapaci di occuparsi di fatti sociali e politici. Non dimenticò mai di aver accumulato un numero imprecisato di rifiuti prima di vedere pubblicato il suo primo racconto e, come racconta ancora Sutin, pur non bramando il lusso, trovava difficile sopportare la povertà, lo status di scrittore ‘di generè dalle scarse entrate.

Dopo la morte, avvenuta a 53 anni il 2 marzo 1982 a seguito di una serie di attacchi cardiaci, la sua figura è stata oggetto di studi critici e rivalutazioni culturali che hanno in gran parte contribuito ad avvicinare nuove generazioni di lettori. La musica (dai Sonic Youth di Schizophrenia ai Primal Scream di A scanner darkly, passando per i Melvins ed i R.E.M.) ha catturato meglio del cinema la tensione presente nelle opere di Dick. Pur concordando con Carlo Pagetti sull’importanza rivestita dalle trasposizioni cinematografiche per la notorietà dello scrittore, sono altri i film più o meno dichiaratamente ‘dickiani’: Brazil di Terry Gilliam; The Truman Show di Peter Weir; eXistenZ di David Cronenberg; Strade Perdute di David Lynch e Mission to Mars di Brian De Palma (per l’approccio al tema del pionerismo spaziale). E il sopravvalutato Blade Runner non vale mezza bobina di Nirvana di Gabriele Salvatores, pellicola che ha tra l’altro il grande pregio di incanalare una via italiana alla SF all’interno di temi introdotti da Dick.

Blade Runner ha poco o nulla a che Ridley Scott e Philip K. Dickvedere con Do Androids Dream of Elecric Sheeps? Nei suoi appunti lo scrittore pensava a Gregory Peck, Martin Balsam o Ben Gazzara per il ruolo di Rick Deckard e, più in generale, ad un film non epurato da tutti "gli aspetti bizzarri, curiosi e inquietanti, nonché tutte le quiddità patafisiche (...)". Suggeriva di concedere più spazio al sesso, riprendendo ed ampliando nella pellicola il tema delle relazioni tra androidi e umani con le due copie di Rachael che fanno l’amore con Rick Deckard e Jack Isidore. Avremmo potuto vedere un’opera interessante, se qualcuno avesse tenuto in considerazione le sue preziose osservazioni; dobbiamo invece accontentarci di un long seller del mercato home video, del noir ambientato in uno scenario futuro con un monologo di Rutger Hauer che ancora passa di bocca in bocca presso ai cinefili: "Ho visto cose..." Non abbiamo visto nulla, purtroppo. Se è una magra consolazione sapere che solo Spielberg ha saputo far peggio con la sua versione di Minority Report, l’invito è quello di cercare Dick nelle pagine dei suoi libri, dove le storie hanno fatto il nido.

 

 

1 Philip K. Dick, Un Oscuro Scrutare; Roma, Fanucci, 1998.

2 Philip K. Dick, Vita breve e felice di uno scrittore di fantascienza; Milano, Feltrinelli, 2001.

3    Lawrence Sutin, Divine invasioni – la vita di Philip K. Dick; Roma, Fanucci, 2001