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INTERVISTA  A CECILIA FINOTTI   di Bob sinisi

 

INTERVISTA  A CECILIA FINOTTICecilia Finotti ha iniziato a coltivare la musica classica in giovane età studiando pianoforte. Poi si è avvicinata al jazz, anche grazie al padre, musicista per diletto, contrabbassista e vibrafonista della storica Doctor Dixie Jazz Band. Nel 1996 Cecilia Finotti ha frequentato le clinics del Berklee College of Music di Boston, nell’ambito di Umbria Jazz. In seguito ha partecipato a seminari della britannica Norma Winstone e di Maria Pia De Vito. Il suo esordio discografico risale al 1999, A Flower is a lovesome thing, raccolta di famosi standard del jazz a cui ha preso parte il sassofonista Maurizio Giammarco. Nevermore, uscito per la Soul Note/I.R.D., rappresenta un deciso passo in avanti nel percorso di un’artista che per sua natura ama quel senso del rischio di cui si nutre la vera musica.

 

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Cecilia, che cosa ti ha spinto a partire dal jazz (genere con il quale ti sei “formata”) in direzione di territori musicali prossimi al pop ed alla musica elettronica? 

La curiosità e l’amore per la musica mi hanno sempre portato ad ascoltare di tutto.

Sono partita dal jazz semplicemente perché per me è una musica familiare, nel senso che, essendo mio padre da sempre un appassionato di questo genere, per me è stato naturale cominciare a cercare una mia dimensione nella musica partendo da un genere che dà una grande libertà espressiva.

La passione per la musica mi ha sempre spinto ad esplorare generi e stili diversi, così come una forte esigenza espressiva mi ha sempre portato ad individuare in questi miei percorsi alternativi elementi che hanno stimolato e arricchito la mia ricerca. Dalla fusione ed elaborazione di questi elementi nasce il mio mondo musicale che penso possa rispecchiare chiaramente quello che è il mio mondo interiore.

Nevermore è il risultato di questo tipo di esperienza.

 

A proposito di jazz, non trovi anche tu che il termine in questi ultimi anni sia servito ad indicare un mondo di suoni decisamente lontani da esso? Senza contare la pletora di compilations che si sono fregiate di tale “titolo nobiliare”…  

Credo che sia uno sforzo inutile voler classificare a tutti i costi qualcosa, soprattutto un tipo di musica, pensando che se la si chiama jazz possa essere considerata ”buona musica”. Penso che la “buona musica” vada oltre le classificazioni di genere e arrivi chiaramente all’ascoltatore quando chi la fa ha realmente qualcosa da comunicare. Quando sento qualcosa che mi piace ascolto la musica, sono “nella musica”, sento che quella musica mi trasmette delle emozioni e non mi viene in mente di chiedermi che genere sia; quello che mi interessa è quello che mi racconta la musica, non il genere al quale dovrebbe appartenere!

 

Tornando a Nevermore, vuoi raccontarci qualcosa riguardo ai tuoi collaboratori? Com’è nato il proficuo rapporto che ti lega a Mauro Campobasso? Infine, giusto per abusare della tua pazienza, ci dai due informazioni sulla “scena bolognese”?  

Mauro Campobasso ha creduto in me da subito, consigliandomi prima di tutto nello studio e successivamente introducendomi nell’ambiente musicale. Grazie a lui ho conosciuto il compianto amico e maestro Alfredo Impullitti che è stato un importante aiuto sia in fase di studio musicale sia nella realizzazione di Nevermore. Riguardo invece all’attuale lavoro di produzione artistica che Mauro realizza con me tutto è giocato in maniera spontanea e creativa: il suo approccio alla mia musica è molto attento a salvaguardare l’idea originaria del brano senza snaturarlo valorizzandolo attraverso delle proposte arrangiative e delle scelte produttive che convincono alla fine entrambi. Mauro riesce con grande pazienza, pur sempre mantenendo uno stile produttivo originale e personale,  ed a rendere viva la mia musica e quell’universo che l’alimenta.

Definire l’attuale scena bolognese in questo momento è particolarmente difficile per me visto che nell’ultimo periodo proprio per dedicarmi alle mie ultime cose ne sono stata lontana. A Bologna esistono rimarchevoli realtà musicali che vanno dalla tradizione be-bop fino all’avanguardia e degli ottimi musicisti. Personalmente fatta eccezione per la frequentazione con Mauro Campobasso, Alfredo Impullitti, Mauro Manzoni, Mirco Mariani, Achille Succi, ho sempre cercato di allargare l’orizzonte delle mie collaborazioni al di fuori delle mura della mia città. Questo mi ha portato a collaborare con Maurizio Giammarco, Luca Bulgarelli, Fabrizio Bosso ed altri, tutto correlato ad un desiderio di scoperta  di nuove realtà musicali fuori dagli schemi conosciuti nei primi tempi dell’apprendistato.

 

Ancora Nevermore…Domanda da un milione di dollari: perché hai realizzato tutte le tracce in lingua inglese? Sappiamo che ti dedichi tuttora alla composizione ed alla produzione di canzoni in italiano… 

Ho realizzato tutte le canzoni in lingua inglese credo per un fatto di coerenza stilistica…ma è stato un fatto istintivo, non ci ho neanche pensato, semplicemente ho iniziato in inglese e ho finito in inglese.

Riguardo alle  canzoni in italiano, queste sono una conseguenza diretta del mio lavoro attuale con un maggior indirizzo verso la forma canzone vera e propria innestata in un contesto più elettronico. Attualmente non posso sbilanciarmi troppo in proposito proprio perché il nuovo progetto è in stato di preparazione, sempre con la collaborazione di Mauro Campobasso, e seguito anche dal produttore Marco Sabiu, un personaggio fuori dagli schemi della normale produzione pop italiana visto che per circa dieci anni ha vissuto a Londra producendo artisti del calibro di Take That, Tanita Tikaram, Perry Blake, Kyle Minogue e recentemente l’ultimo album di Françoise Hardy.

 

Per concludere, in quale maniera ti rapporti con la rappresentazione live dei tuoi pensieri, delle tue creazioni?

Prima di Nevermore mi sono avvalsa di un quartetto o trio abbastanza tradizionale, seguendo dal vivo il classico schema del gruppo jazz che accompagna una cantante. Spesso mi esibivo in duo con Mauro Campobasso alla chitarra e molte volte questa formazione veniva completata dalla presenza di Achille Succi ai sassofoni. Tutto sempre realizzato in un ottica decisamente tradizionale, almeno dal punto di vista formale e sempre correlata ad un equilibrio interno tra me ed i musicisti, come del resto accadeva in quartetto ed in quintetto. Riguardo invece a Nevermore le cose sono decisamente cambiate. Prima di tutto, proprio in questo periodo, sto concependo un nuovo gruppo che possa al tempo stesso rappresentare dal vivo le composizioni dell’ultimo album e mostrare, in anteprima, le mie nuove canzoni in italiano. Per questo ho scelto dei musicisti con una formazione non esclusivamente jazzistica, a me vicini non solo musicalmente ma anche geograficamente, e disposti a provare e sperimentare con me le nuove cose. Vorrei che dal vivo interagissero tra loro elementi acustici ed elettronici. Oltre a Mauro Campobasso alla chitarra ed alle manipolazioni elettroniche, ho chiesto la colaborazione di Mauro Manzoni ai sassofoni, Pierluigi Mingotti al basso e Stefano Paolini alla batteria, tutti straordinari musicisti, oltre che appassionati di elettronica ma al tempo stesso capaci di farla interagire con un suono più acusitico. Si tratta in un certo senso di una cosa nuova per me, anche rispetto a Nevermore, e che spero possiate vedere al più presto dal vivo.

 

Grazie della disponibilità…. 

Grazie a te Bob! È stato un piacere, a presto!