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(LEGGI ANCHE LA RECENSIONE SUL LIBRO BLACK FLAG)


INTERVISTA  A VALERIO EVANGELISTI di Nino G. D’Attis

 

L’incontro con Valerio Evangelisti è una delle sorprese più belle che ci siano capitate da quando abbiamo inaugurato il nostro sito. Ci siamo occupati di Black Flag, il suo ultimo romanzo, poi abbiamo provato a contattarlo per rivolgergli alcune domande e la risposta non si è fatta attendere a lungo (più veloce dei nostri abituali collaboratori).

Nato a Bologna nel 1952, Evangelisti approda alla narrativa nel 1994 , dopo una lunga attività come saggista, vincendo il Premio Urania con Nicolas Eymerich, inquisitore, primo tassello di una saga che conta fino ad oggi altri sei romanzi, tutti pubblicati da Mondadori. Del 1998 è l'antologia di racconti Metallo urlante (Einaudi), mentre nel 1999 è uscito in tre volumi Magus. Il romanzo di Nostradamus, seguito nel 2000 dalla raccolta di saggi Alla periferia di Alphaville per la casa editrice L’ancora del Mediterraneo. I suoi libri sono tradotti in Spagna, Germania e Francia (dove lo scrittore ha vinto nel 1998 il Grand Prix de l'Imaginaire e un anno dopo il Prix Tour Eiffel). Scrive sceneggiature per radio, cinema e televisione, ascolta la musica che fa da soundtrack ai libri che scrive ed è direttore editoriale della rivista Carmilla.

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Black Flag, il suo ultimo romanzo, mette in scena ancora una volta un processo di disumanizzazione che arriva dal passato, dalla storia del genere umano e si apre con una citazione dal discorso di George W.Bush al Congresso, pochi giorni dopo la tragedia dell'11 settembre. Quanto peso hanno avuto gli eventi internazionali dei mesi scorsi sulla stesura del libro?

Moltissimo, è evidente. E non solo gli eventi internazionali: uno dei possibili incipit del romanzo a cui avevo pensato era ambientato nella caserma di Bolzaneto, dopo la repressione della manifestazione contro il G8, a Genova. Volevo legare la mia storia all'attualità, e cercare nel presente il connubio tra violenza e assenza di valori. Se scrivessi il mio romanzo adesso, probabilmente l'incipit avrebbe per teatro la Palestina.

Nessun fine da perseguire, nessun futuro, nessun nemico preciso: sono concetti che martellano il lettore nel corso dell'intero romanzo. Tuttavia, nelle ultime pagine, l'idea di una resistenza a qualsiasi prezzo e con ogni mezzo, anche con un'antica pistola in pugno, restituisce ad alcuni personaggi una dignità straordinaria. Mentre scriveva, sapeva di dover offrire uno spiraglio di luce al lettore?

Ero intenzionato a farlo, ma non per compiacere il lettore, o non solo per questo. Il mio intento, pur tenendomi alla larga da qualsiasi lezione morale, era di trasmettere l'idea che, anche in condizioni disperate, la ribellione conferisce dignità a chi la pratica. Negli anni '70 ero ventenne, e tantissimi miei coetanei hanno vissuto una storia di conati di rivolta non tanto politica quanto esistenziale, culminata con una serie di sconfitte. Ma, fatta eccezione per chi ha rinnegato tutto, la maggior parte di noi ritiene ancora che valesse la pena di ribellarsi, al di là del risultato finale.

Pantera è uno stregone dotato di poteri sconvolgenti, eppure, oltre ad avere un curioso rapporto di attrazione con le armi da fuoco, con la materia, mantiene un certo distacco dal mondo ancestrale che padroneggia. È come se fosse il primo a stupirsi delle proprie facoltà sovrannaturali...è così?

Sì, è così. Pantera è scettico su tutto, incluso lo stesso mondo magico che teoricamente è il suo. Partecipa ma non aderisce. Questo è il suo tratto caratteriale primario, applicabile a tutti i campi. Al tempo stesso, però, aborre dal vuoto che si vede attorno, fino a legittimare ogni tipo di credenza, purché dotata di spessore. Confesso che questo atteggiamento è fortemente autobiografico, e coincide con le mie scelte quotidiane. Naturalmente, il prezzo che si paga è quello di ritrovarsi soli, come è solo Pantera.

La sua visione del West è molto vicina a quella di Sam Peckimpah e del Jarmusch di Dead Man o, per restare in ambito letterario, di Cormac McCarthy: crudo realismo, nessuna concessione ai miti hollywoodiani o al romanticismo alla Louis L'Amour. Come si è documentato mentre lavorava al romanzo?

Non sembra ma, per la ricerca che ci sta dietro, è quasi un romanzo storico. Pare facile descrivere Laredo a metà del XIX secolo, però, se si vuole che il ritratto sia credibile, la ricostruzione dev'essere puntigliosa. Ciò significa leggere libri e raccogliere dati. Questo vale anche per dettagli minori, che il lettore normalmente trascura, e molti autori anche. Posso dire che c'erano alberi, erba e cespugli; però, se voglio che quei tratti acquistino evidenza, devo dare un nome a quelle piante, e dunque informarmi con precisione sulla flora del Missouri. Circa i riferimenti cinematografici, avevo bene in mente certi western all'italiana: il primo Leone, ovviamente, ma non solo. Storie in cui un personaggio cinico e apparentemente amorale finisce, quasi controvoglia, per assumere il ruolo del giustiziere. Il tema torna in qualche film di Peckimpah, però Leone è stato il primo. Dirò un'eresia, però a me sembra che persino Cormac Mc Carthy gli debba qualcosa. Nel lungo periodo precedente Leone, il West era un'altra cosa, sia al cinema che nella narrativa.

Nel 1962, James Ballard scrisse: "Negli ultimi tempi mi è capitato troppo spesso, quando cercavo qualcosa che stimolasse la mia immaginazione, di rivolgermi alla pittura o alla musica piuttosto che alla fantascienza (...)" e recentemente anche lei ha avanzato delle perplessità sulla sopravvivenza di una letteratura fantascientifica incapace di rinnovarsi, di esporsi a delle contaminazioni. C'è qualche autore che a suo giudizio abbia già raccolto la sfida?

Sì, ma ancora in ordine sparso, e non sempre con una provenienza diretta dal genere. Potrei citare alla rinfusa Houellebecq, Dantec, l'americano John Crowley (poco tradotto in Italia per la lunghezza eccessiva dei suoi romanzi), Robert Coover, Joe Lansdale, lo spagnolo Aguilera (ancora inedito da noi), il russo Viktor Pelevin, l'italiano Tommaso Pincio...Autori diversissimi tra loro, che però hanno riconosciuto negli stilemi della fantascienza i veicoli per una letteratura di qualità. Ora si attende, dall'interno del genere, una risposta adeguata a questa sfida, che non sia limitata ai soliti Ballard e Vonnegut. Altrimenti, più che la morte, c'è da temere la noia.

Mescolare il tempo, gli eventi, ma anche, sul piano puramente stilistico, i generi (letterari e non). Ritiene possibile, o almeno auspicabile, una via italiana all'Avant Pop dei vari Mark Leyner, David F. Wallace e Chuck Palahnjuk?

Sì, certo. L'ultimo romanzo di Tommaso Pincio ("Un amore dell'altro mondo") mi è piaciuto davvero. Anche "Nel nome di Ishmael", di Giuseppe Genna, parte dal noir e sprofonda nel delirio. Le energie ci sono e, oggi, esistono anche canali editoriali sufficientemente disinibiti.

L'importante è che un cammino di esplorazione non si converta in moda, come avvenne a suo tempo per i "cannibali". Evitata questa secca, tutto diventa possibile.

Grazie.

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