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INTERVISTA  A GIUSEPPE GENNA di Nino G. D’Attis

 

Giuseppe GennaGiuseppe Genna, nato a Milano nel  1969, scrittore e motore del sito letterario I Miserabili, ha pubblicato recentemente il thriller Grande Madre Rossa (Mondadori). Vanta traduzioni  negli Stati Uniti, in Inghilterra, Germania, Francia, Spagna e in molti altri paesi, incluso il Giappone. Nel suo background, collaborazioni con la rivista Poesia e con la redazione del portale Clarence. Si dice "cronicamente sfidanzato" e "in cerca di qualche buon samaritano che gli offra uno straccio di occupazione, dopo l'esplosione della bolla speculativa sul Web". E' il nuovo, graditissimo ospite della sezione 'Incontri' di Blackmailmag. Un vulcano di parole, a dir poco!

 

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 Siamo al quarto romanzo che ruota intorno all’ispettore Guido Lopez e il personaggio è molto cambiato rispetto a come lo conoscevamo in Catrame e Nel nome di Ishmael, sembra molto vicino all’evoluzione che ha avuto Pantera nel ciclo che gli ha dedicato Valerio Evangelisti: più riflessivo, più calato nel ruolo di testimone...sei d’accordo? 

Lavorare sull’evoluzione di un personaggio è estremamente affascinante. Non è un segreto che all’idea di “ciclo”, che Evangelisti ha imposto con potenza alla narrativa italiana contemporanea, io mi sia ispirato e continui a ispirarmi. Si tratta di qualcosa di estremamente differente rispetto al “seriale”: Maigret, per esempio, non evolve mai e diventa macchinico a sua insaputa, fino a distruggere totalmente la corrente libidica che lo connette al genio di Simenon. Il “ciclo” mutua invece i suoi apparati e le sue suggestioni dall’epica: esso stesso è una grande storia, fatta di storie. Non considero mai come indipendente un libro in cui Lopez appare da protagonista: si tratta di una sillaba rispetto a una frase intera. Quanto all’ultimo Lopez, è vero che si tratta di un puro testimone, ma per me questo significa l’opposto rispetto a una figura della riflessione. L’ultimo Lopez è una didascalia dei versi del grandissimo poeta tedesco Paul Celan: “Nessuno testimonia / per / il testimone”.

 

 

Qual è stata l’ispirazione per lo scenario italiano di distruzione in Grande Madre Rossa? Se non ricordo male, alla fine dello scorso anno hai rinunciato all’idea di un altro libro. 

Diciamo che ci ho rinunciato a forza, perché sorgevano, intorno a quel romanzo-reportage, problemi politici ed editoriali. Posso dire che lo scenario nazionale in cui si muovono le marionette umane e disumane di Grande Madre Rossa nasce dallo sfinimento dell’idea narrativa di paranoia. Il complotto non è più un’arma retorica per narrare il presente. Siamo a un altro grado: il presente mi appare bene rappresentabile da un’ulteriore metafora psichiatrica, quella della sindrome post-trauma. Un’allucinazione che coincide col reale, ma in piena dissociazione. L’Italia è una figurazione storica di una simile sindrome, oggi come non mai – basti pensare ai mutamenti quasi genetici della cultura collettiva media, alla mediocrità collettiva direi…

 

Ulrike Meinhof, legata al gruppo eversivo Baader-Meinhof, è un’ombra del mondo reale che si affaccia nelle vicende narrate nel romanzo. Uno spettro degli anni Settanta proiettato nel nuovo millennio e in una nazione che si dice infestata dai fantasmi... 

Ci sono molte assurdità e particelle improbabili, quasi distoniche, che volteggiano in Grande Madre Rossa. Da un lato, sicuramente Manzoni e il suo rapporto mancato con il socialismo. Dall’altra, a fare da controcanto a quest’allegoria maschile impropria e in stato confusionale, c’è l’inserto, volutamente disarmonico e sgradevole, del fantasma di Ulrike Meinhof. Si tratta del tentativo, appunto, di dare rappresentazione a una canea allucinante come quella che, sugli anni Settanta, l’Italia ospita e alimenta, come dimostra il recente caso della richiesta di estradizione nei confronti di Cesare Battisti. Questa improbabilità – un non-dibattito feroce e disinformato che si gioca, con apici di retorica lacrimogena, sui vivi e sui morti, sui viventi di ieri e sui morituri di domani – non manca di sconcertarmi. Una rissa nazionale in cui ognuno si fa beffe di se stesso e del sangue, di quello passato presente e futuro, è un evento politicamente degno soltanto di un Paese che sceglie di farsi governare da una gang. Inserire la Meinhof in una trama che dovrebbe scorrere in altro senso, conferisce un estraniamento che non è per nulla estraneo a un senso disagio profondo, e cioè quello che coglie me quando leggo un articolo di Pansa sui Settanta…

 

La morte, il caos, il gelo “argentiano” del Cimitero Monumentale di Milano (ho pensato alla scena più famosa de Il Gatto a nove code con Karl Malden e James Franciscus), poi l’unico momento di respiro del libro, quando Lopez incontra lo strano Roberto Chen-po Karmapa. Uno che dice al poliziotto: «Cosa c’è da capire quando si gioca? Si gioca e basta.» Bellissimo! 

Va detto che Roberto Chen-po Karmapa, un meticcio tibetano-romagnolo, esiste davvero ed è una persona paradossalmente molto nota. È a lui che devo una delle soluzioni narrative più ardite di GMR: la citazione da Twin Peaks, il gioco tibetano della verità, che nel telefilm di Lynch veniva realizzato mirando a bottiglie di vetro, mentre nel mio libro si gioca più paesanamente a bocce. Roberto Chen-po Karmapa è l’unica figura positiva del romanzo: esprime una poetica del trascendimento praticato qui, in questo mondo, una consapevolezza indistruttibile dell’assoluto divenire di tutte le cose, in cui l’uomo realizza la sua storia, che è una miriade di storie. È un’estetica che è anche una metafisica, è la narrazione infinita che si fa pratica. Quanto alla citazione dal film dal Gatto: beccato! J

 

In diverse occasioni, hai dichiarato un forte interesse per Thomas Pynchon e per l’uso che il grande scrittore ha fatto della paranoia come strumento di osservazione (anche, o soprattutto, lirico) della storia umana. Molte pagine di Grande Madre Rossa sembrano aderire alla lezione pynchoniana, a partire dal bellissimo inizio in cui la narrazione sembra affidata a una macchina da presa in soggettiva... 

L’incipit è un mix tra l’apertura visionaria dei Promessi Sposi e di una sequenza del terzo Matrix, precisamente quella in cui Neo e Trinity, diretti verso la Città delle Macchine, per sfuggire al bombardamento in orizzontale, bucano lo strato di nuvole e vedono il sole per la prima volta – e poi ricadono nel nero. Quanto a Pynchon, credo che la lezione più complessa impartita da questo genio, che considero il massimo scrittore vivente, è l’avere saputo dare corpo letterario a quel ‘paradigma della paranoia’ a cui accennavo, distruggendolo però mentre lo rappresentava, per spalancare un ulteriore orizzonte. In questo, GMR è un libro dichiaratamente ispirato a Vineland: i personaggi non si lanciano attraverso vetrine dei negozi, ma praticano l’improbabilità in altro senso.

 

A proposito di cinema: dopo gli anni Settanta, in Italia, è scomparso quel cinema di genere che oggi, ne sono convinto, avrebbe potuto nutrirsi di molta buona letteratura. Credi anche tu che, con rare eccezioni (penso a L’Ultimo capodanno di Marco Risi, tratto da Ammaniti o al recente Il Fuggiasco di Andrea Manni, da Carlotto) si tratti di un appuntamento mancato? 

Tocchi una questione centrale, quella del genere. Io credo che non si tratti di un appuntamento mancato quanto di un appuntamento impossibile: un appuntamento a cui il cinema non può presentarsi, non sa dove ci si incontrerà e non avrebbe comunque i mezzi necessari per arrivare in tempo. Se ci pensi, Evangelisti, De Cataldo, Wu Ming (per citare solo alcuni) non incarnano il prototipo dell’autore di genere. Sono, piuttosto, autori che hanno trascinato il genere attraverso il buco nero delle poetiche, portandolo in un affascinante universo parallelo, più vasto e stupefacente. Ciò che Evangelisti ha fatto col fantastico e la fantascienza, ciò che De Cataldo ha fatto col nero, ciò che i Wu Ming hanno fatto col genere storico – sono opere di oltrepassamento poetico, che la critica in futuro vedrà come movimenti fondamentali della nostra storia letteraria. Il cinema non ce la fa a stare dietro a questi gesti che, almeno dal punto di vista narrativo, mi appaiono come troppo colossali per essere trattenuti nelle gabbiette della rappresentazione filmica. Non che non si possa fare un film da Eymerich – è che non riuscirebbe a tenere in sé tutto l’universo di Evangelisti. La letteratura, credo, è mille miglia davanti allo stato dell’arte cinematografica.

 

Segui personalmente le traduzioni dei tuoi libri all’estero? Hai un filo diretto con il traduttore? 

Mi verrebbe da dire: sì, purtroppo. Nel senso che si tratta di un lavoro vero e proprio. Fortunatamente ho traduttori che sono intellettuali straordinari, gente con cui discutere apre orizzonti per me ogni volta sorprendenti. Su tutti, il francese Julien Gayrard, che ha tradotto Catrame e Ishmael, dispone una competenza stilistica e filosofica incredibili; e l’olandese Pieter van Drift, che ha tradotto Ishmael e il Drago, mi sottopone a un ripetuto terzo grado, a questioni di poetica importanti. I rapporti extranazionali che mi hanno consentito i thriller sono impagabili. E ridimensionano certe questioni che, qui in Italia, appaiono essenziali.

 

Qual è il ruolo dei consulenti, delle persone che a vario titolo finiscono col contribuire alla stesura di un tuo romanzo? 

Direi fondamentale. Quanto a Grande Madre Rossa, la persona che si nasconde dietro Roberto Chen-po Karmapa è risultata decisiva. Così come lo spilungone che, in GMR, viene coperto con le fattezze di Lopez – un uomo che mi ha detto una volta. “Guàrdati dalla collera di un uomo paziente”. In realtà si tratta di un desiderio personale che aspirerei a vedere esaurito sempre: cioè che i libri nascessero da un brain-storming collettivo continuo. Per me alcuni rapporti, in questo senso, sono imprescindibili. Soprattutto i consigli e la frequentazione di Igino Domanin e del regista Gilberto Squizzato.

 

Volevo chiederti qualcosa a proposito de I Demoni, firmato insieme a Ferruccio Parazzoli e Michele Monina e di Forget domani, con Igino Domanin. Come cambiano il tuo metodo, i tuoi ritmi di lavoro quando sei parte di un team? 

Mi citi la mia massima delusione letteraria e l’esperienza editoriale più gioiosa. Con Parazzoli e Monina ha faticato a crearsi il team, non nel senso che non ci si vedesse e non si discutesse su cosa fare: ma il fatto è che ognuno di noi era preso dalle proprie ossessioni e io non ho avvertito l’osmosi, l’uscita da se stessi, l’incontro con l’universo altrui. Con Igino Domanin, invece, si è trattato dell’esperienza più divertente e rivelativa che io abbia fatto in letteratura. Mi sono lasciato totalmente penetrare dalle nevrosi allucinogene di Igino e, credo, lui dalle mie. Inoltre lavoravamo a fianco a fianco a Clarence, otto ore al giorno cinque giorni alla settimana. Abbiamo elaborato la barzelletta scintillante del lounge per dare una figura a prospettive filosofiche divergenti e, per me, estremamente conturbanti. Con Igino lavorare è stato il Paradiso Lounge: night, interviste a Buget Bozzo o Maurizio Mosca, viaggi a Napoli o ricoveri all’ospedale milanese di Niguarda, ascolto di percussioni africane con William Burroughs filmato nel Congo, sfide incrociate sulla reincarnazione di Sandokan, lisergie a base di cocktail e Sinatra, l’incontro fisico con James Ellroy: io a Igino Domanin devo moltissimo. Sta scrivendo un romanzo eccezionale, i suoi nuovi racconti sono inesaurbili e luminose scie nel cupo cielo letterario. Il romanzo che sto scrivendo ora, e che si intitola Manas, è dedicato a Igino.

 

Spesso, su I Miserabili, scrivi di autori indifendibili come Bevilacqua! Si può? C'è un tipo di letteratura o uno scrittore che davvero non riesci a mandar giù? 

Ti sfido a leggere La polvere sull’erba di Bevilacqua, il primo testo einaudiano dell’autore di Parma, e a dirmi che non si tratta della più alta raccolta di prose degli ultimi vent’anni di narrativa italiana. Bevilacqua è uno scrittore e un personaggio pazzesco, coltissimo, geniale, travolgente, entusiasmante. In questo molto fa la generazione, il momento storico in cui è cresciuto. Non ho remore ad affermare che si tratta del Grande Vecchio della letteratura italiana. Per me, insieme a lui, solo Zanzotto e Arbasino sono a un livello di memorabilità che si incarna nei testi. Non tutti i testi, è ovvio. Ma questo vale anche per Sereni, per Pasolini, per Volponi…

Non esistono autori che non digerisco. Per me la questione è un’altra. Di tutti si possono dire o i pregi o i difetti o i pregi e i difetti. Questa gabbia è asfissiante! E poi io non sono un critico, faccio solo divulgazione letteraria in Rete.  Ti faccio un esempio: un autore che mi fa schifo, ma schifo proprio, la cui prosa mi disgusta, è Michel Houellebecq. Ma è uno dei massimi scrittori del mio tempo! è formidabile! Che c’entra che a me fa schifo? Mica sono una norma giuridica, io. Io non esisto. Che non debba esistere ‘io’ è l’unico criterio di collazione del materiale che finisce sui Miserabili.

 

Ultima domanda: hai davvero lavorato nella redazione di una tv soft porno? 

Sì, a Telereporter. Dal ’90 al ’92. Dovevo sposarmi con la sosia di Mia Farrow, avevo vent’anni, dovevo guadagnare. E mi sono trovato in un hellzapoppin rabeleisiano: c’erano Wanna Marchi, Tiziano Crudeli che parlava di tennis, Roberto il Baffo che mi portava su una decapottabile rossa. In sala montaggio, a Quarto Oggiaro, accrocchiavano le immagini da film porno da trasmettere a notte inoltrata. Va detto che già allora frequentavo Igino Domanin: mi è servito per mettere fieno in cascina... :D

 

Grazie.