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HASSANUNI

 

«Salaam ailekkum». «Ua ailekkum salaam». Non si può  non rispondere al saluto islamico. Risponde anche chi non ha fiato, anche chi non capisce l’arabo. Magari si può non contraccambiare il buon giorno, o la buonasera o l’arrivederci. Ma anche chi ti odia si sente obbligato ad augurarti a sua volta «pace a voi».

Mi salutano così, dalla tenda, mentre percorro chilometri di spiaggia deserta. La mia risposta e i loro sorrisi mi trascinano dentro. Uno dei beduini fuma il narghilè. Gli altri stanno semplicemente lì, seduti a guardare e ascoltare il mare in quel momento della giornata in cui le ombre si allungano fino a scomparire. Uno, il vecchio, si apparta. É ishà , l’ora dell’ultima delle cinque  preghiere. Ho sempre ammirato la capacità dei musulmani di pregare ovunque. Non servono luoghi né ministri di culto, tantomeno silenzio o solitudine: basta un tappetino e un buon senso dell’orientamento. Prima, dell’acqua. Ci si rivolge a la mecca e si comincia. Gli altri continuano nelle loro attività, mangiano, chiaccherano, sentono la musica, continuano a fare la spesa, attenti solo a non calpestare il fedele che dietro le loro schiene si alza e si abbassa mormorando allah akbar.

Nella tenda riesco a rifiutare tè e caffè fino a che il vecchio non torna nel cerchio. Non sono mai stata troppo brava a contraddire gli anziani: mi accorgo presto che con Hassanun è impossibile. Non capisco cosa dica in arabo: so solo che accetto un bicchiere di karkadè. Inizia ad accendere il fuoco, nella sabbia, con pazienza, rompendo rametto su rametto.

A stento riesco ad articolare parole dopo il primo sorso del karkadè versato in un bicchiere che ne lascia ammirare il colore rubino. La mobilità delle labbra è semplicemente bloccata dalle proprietà, deduco, astringenti dei fiori di hibisco essiccati. Mentre tento disperatamente di recuperarla, Hassanun salta su come una molla, con un’energia che assai poco si confà alla sua avanzata età, e abbraccia la simsemeia. È una specie di chitarra, nel senso che ha le corde attaccate a un quadrato fatto da quattro pezzi di legno. Hassanun comincia a suonare e sulle note – che a me sembrano tutte uguali – intona delle canzoni. Obbliga tutti i presenti a cantare i ritornelli in coro. A breve seguo anche io. Hassanun si gasa, il tipo che fumava il narghilè lo molla improvvisamente e abbraccia una tanica di benzina vuota. La usa a mo’ di tamburo. Noi altri, nel cerchio, lo seguiamo battendo il ritmo con le mani. Qualcuno si azzarda a fare il controcanto. Ma Hassanun diventa furioso se qualcuno di noi – a parte me, tutti beduini genuini che in ritmi del genere sono cresciuti – sbaglia. Interrompe, ci cazzia, spiega come si fa, canticchia e batte le mani, sospira affranto e ricomincia.

È uno spettacolo in tutti i sensi. E Hassanun lo sa. Deve immaginarsi sul palco di un grande teatro, perché alla fine di ogni canzone, in inglese, urla : « Ok, fine, thank you ». Si inchina, raccoglie applausi e si riaccuccia ad accertarsi che il fuoco non si spenga. Ci scambiamo sguardi di intesa: finalmente un po’ di pace. Ma l’illusione è breve. Hassanun risalta su, stavolta ci chiede di allargare il cerchio per attraversarlo ballando. Canta stornelli improvvisati sui presenti, capisco che cerca una rima per il mio nome. Il coro tra una strofa e l’altra non è difficile da seguire ma se mi perdo mi becco un’occhiataccia del nonno.

Mentre cantiamo, suoniamo e balliamo i marines entrano a Baghdad.

 

C.L.