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JAGA (JAZZIST): WHAT WE MUST (Smalltownsupersound / Ninja Tune)

 

JAGA (JAZZIST): WHAT WE MUSTRicordo, correva l’anno di grazia 2002 e la Ninja Tune dava in pasto agli affamati cultori dell’elettronica A Livingroom Hush, album che raccoglieva le sperimentazioni digital jazz firmate da un numerosissimo combo norvegese, dall’eloquente nome di Jaga Jazzist. I critici si spellavano (giustamente) le mani di fronte a cotanta creatività e all’evidente coraggio con cui i dieci nordeuropei si cimentavano nella manipolazione di un genere così tradizionale.

Ricordo inoltre che per simpatia ed efficacia mi aveva colpito la recensione di un magazine, Sleaze Nation il quale, per raccontare sommariamente il disco, aveva scritto: “Come Charles Mingus con Aphex Twin su per il culo”.

Perfetto. Passano gli anni, i nostri realizzano altri lavori (da segnalare Pooka, l’ottimo esordio solista di Lars Horntveth) e giungono ora al nuovo  What We Must,

nato sulle basi del demo  Spydeberg Sessions (peraltro incluso nel bonus cd), registrato in uno studio nel bel mezzo di una foresta norvegese.

Bene, alla luce del simpatico commento citato, si potrebbe parlare del nuovo corso intrapreso dalla big band più o meno così: “Come i Soft Machine con i Sigur Ros ed i Tortoise a mo’ di supposta”.

I Jaga levano momentaneamente dall’intestazione il “Jazzist” e si avventurano a testa bassa verso nuove/vecchie esperienze: abbracciano a modo loro il rock, preservando le spiagge orchestrali (loro marchio di fabbrica) ma abbandonando quasi completamente l’elettronica, sostituita da abbondanti dosi di chitarre.

Il lavoro ha un sapore molto live, progressive e cinematico che conferma come Horntveth e soci rifiutino di essere ingabbiati nelle solite etichette, in particolare in quella (insipida ed attualmente insignificante) di electro jazz. I dieci avventurieri nordici si nutrono musicalmente di tutto, hanno buona memoria e ricordano alla perfezione cosa ascoltavano durante la loro adolescenza: il rock, nelle sue mille esternazioni.

Così è venuta loro la voglia di lasciarsi alle spalle il digitale per incontrare suoni più semplici, più umani. Un’esigenza intellettuale, suppongo, nonché la voglia di rimettersi in gioco per mantenere unita una famiglia artistica numerosa.

70 concerti all’anno e la relativa, assidua frequentazione tra dieci vulcaniche menti richiedono giocoforza nuovi stimoli: il desiderio di abbattere inutili steccati, avanti e indietro nel tempo, diventa necessità.

 

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Bob Sinisi