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CONVERSAZIONE CON SILVANO AGOSTI 

 

Silvano Agosti in realtà non è un montatore, o quanto meno non lo è in senso unico ed assoluto, piuttosto è un autore totale: esercente, produttore, sceneggiatore, regista, montatore e proprietario di un cinema, l’Azzurro Scipioni, che per calore e accoglienza è paragonabile più all’abitazione privata di un amante del cinema che ad una classica sala cinematografica.

Dopo essersi trasferito da Brescia, la sua città natale, a Roma, Silvano nel 1962 si diploma in regia al Centro Sperimentale di Cinematografia dove, almeno così egli stesso disse in una intervista, l’unica cosa che imparò fu proprio il fatto che non c’era niente da imparare.

Il rapporto di Silvano con il cinema è talmente naturale e viscerale che è una follia per lui distinguere all’interno di questo mondo di sogni e di idee, singole fasi: il cinema è un corpo unico, e le singole parti di questo corpo non fanno altro che esprimere tutte la stessa cosa: l’anima del suo autore.

Dunque, è stata proprio la totalità di questo cineasta, oltre che la sua specializzazione in tecnica del montaggio all’Istituto di Stato del Cinema di Mosca e alla sua collaborazione in qualità di montatore ad alcuni film di Marco Bellocchio, Lino del Frà ed altri, a rendere interessante e viva la nostra conversazione.

Come mai hai iniziato a fare il montatore? Fu un caso o una volontà ben precisa? E cosa ti affascinava del montaggio? Non ricordo dove ho letto che ti piace toccare la pellicola tanto che nel tuo cinema, spesso, fai l’operatore di cabina.

Io non ho mai iniziato a fare il montatore. È come se uno domandasse a te: Come mai hai iniziato a mangiare la pasta asciutta? . Sono stato marchiato a fuoco con il marchio del montatore per neutralizzare la mia presenza di autore. Ero particolarmente interessato a studiare la pratica del montaggio, così come dopo sono stato interessato a studiare la fotografia, perché io voglio ridare il cinema nelle mani dell’autore.

Nel 1929 l’industria ha strappato il cinema dalle mani dell’autore e si è inventata questo Frankestein che è la troupe cinematografica: una miserabile ricostruzione della figura dell’autore che l’industria fa per poterlo dominare, nel senso che se non va bene un pezzo l’industria lo cambia. Invece, l’autore cinematografico è colui che, come l’autore letterario, l’autore pittorico, l’autore architettonico, si responsabilizza in assoluto circa la creatività dell’opera, non cede a nessuno un millimetro di creatività. Io parametro l’esperienza creativa del cinema al rapporto d’amore con una donna: è impensabile che ci si scelga l’accarezzatore più bravo o il baciatore più esperto; è demenziale, in quanto il rapporto di intimità con il mondo nel momento creativo deve essere un rapporto assoluto e non cedibile, proprio come quando si fa l’amore.

E quindi ogni fase tecnica del cinema è creativa allo stesso modo, o il montaggio ha una maggiore potenzialità creativa?

Il montaggio non è di più, ad esempio, della fotografia. Il montaggio è una fase creativa che ha un momento suo di protagonismo: nel momento in cui il film cerca una sua narrazione ritmica il protagonista è il montaggio.

Questa meschina e squallida figura del regista è paragonabile alla prostituta, dal momento che qualcuno va da lui e gli chiede:  Ci sono i soldi, vuoi fare un film? e lui lo fa. L’autore è un’altra cosa, è una figura sepolta sotto queste macerie di creatività che caratterizzano l’industria. Infatti, di tutti i film prodotti dall’industria cinematografica dal 1929 ad oggi, solo circa quattrocento entrano nella storia del cinema. Questi sono di autori, come Orson Welles, che con la loro autorevolezza creativa assoluta sono riusciti a contrapporsi alla concezione industriale e ad essere comunque autori.

Dunque non può esistere, e non esiste nella storia del cinema italiano un montatore-autore che non sia anche regista?

Torniamo al paragone di prima: anche se uno ha uno straordinario baciatore, questo non ha nulla a che vedere con il rapporto d’amore unico tra due persone. Più il montatore è autorevole, più schiaccia la figura del regista creativamente. Il montaggio è una fase della creatività, e la creatività ha le sue fasi che cominciano dall’ispirazione, per poi passare alla chiarificazione del soggetto, fino a quando il quadro si restringe sempre più.

Ma esiste il montaggio già all’interno della sceneggiatura, all’interno della fotografia?

Il montaggio è intrinseco, è un fenomeno simile a quello biologico: gli organi del corpo partono tutti da una cellula originale, poi si differenziano e il corpo viene montato; oppure, tu oggi hai percorso la strada da casa tua a qua, hai filmato milioni di immagini e questa notte nel sonno le monterai, cioè scarterai tutte quelle che non ti interessano e farai entrare nel ricordo solo alcune tue percezioni del quotidiano.

Si sono dette le cose più insensate su questi temi proprio per adeguarsi all’insensatezza dell’industria. L’industria è industria, e deve fare le scatolette di tonno; il cinema, invece, striscia sotterraneo e clandestino come la vita stessa all’interno di questa società industrializzata, e quindi barbara e rinnegatrice di tutti i valori umani.

L’esperienza russa ti ha stimolato, in qualche modo, ad avere questa concezione creativa e profondamente comunicativa del cinema, ed in particolare della fase del montaggio?

Io prima di tutto sono sempre stato un essere umano e non ho mai alienato questa possibilità che del resto c’è in ognuno. Ho avuto la fortuna di non andare a scuola i primi dieci anni, e questo mi ha dato la possibilità di poter rafforzare il mio essere un essere umano prima che me lo schiacciassero.

Nell’intervista che ti ha fatto Stefano Masi tu hai detto che ci sono dei pastori sardi che pur non essendo mai stati a scuola sono dei veri poeti. Sarebbe possibile fare il montatore senza sapere niente della storia del montaggio, o come sarebbe un bambino al montaggio? I tuoi film sono spesso popolati da bambini che diventano espressione di una ingenua consapevolezza della vita.

Un bambino al montaggio sarebbe come un bambino che fa l’amore. Il bambino ha la propria dimensione dell’amore, non entra nel merito della riproduzione della vita e del grande mistero dell’amore.

Il montaggio, ti ripeto, è una fase creativa del cinema. L’industria si approfitta di queste distinzioni per creare dei mostri, perché l’industria si basa sulla ragione, mentre la creatività si basa sull’emotività, sul sentimento, e, come dice Goya,  i sogni della ragione producono mostri . L’industria produce dei mostri.

Quindi io sono del parere che si debba abbandonare l’idea che esiste il montatore; esiste, piuttosto, una feroce distinzione industriale dell’attività creativa che costringe un essere umano a limitare la sua creatività all’elemento del montaggio. Per me il montatore dovrebbe essere chiamato "mont-autore".

Quindi nella tua collaborazione con Bellocchio tu eri "mont-autore"?

Si, esatto. Io, per I Pugni in tasca di Bellocchio, sono diventato emotivamente Marco Bellocchio e ho fatto quello che Marco non sarebbe mai stato capace di fare. Ma l’ho fatto sempre ispirandomi e identificandomi con la personalità di Marco; non avrei mai avuto il cattivo gusto di sovrappormi a lui.

Bellocchio assisteva al montaggio o si fidava ciecamente di te?

Io non ho mai voluto che Bellocchio e gli altri autori fossero presenti mentre io montavo, perché in quel momento ero io l’autore. La mia disponibilità era quella di prestare il mio utero a un’altra donna che non poteva partorire. C’è chi dirà che la vera madre è l’una, c’è chi dirà che è l’altra, ma questo a me non interessa.

Al tuo ritorno dalla Russia quale era la situazione del cinema italiano?

Già dal 1929 la situazione era disastrata, al mio ritorno dalla Russia questo disastro era più evidente che mai: nessun autore poteva fare un film, perché c’erano i tre che l’industria aveva consacrato, Visconti, Rossellini e Fellini e poi c’erano dei nani che si muovevano sotto. Allora io e Bellocchio abbiamo pensato di fare un film, I Pugni in tasca, fuori dalle regole industriali in un clima di assoluta serenità: mentre Marco girava a Bobbio, io montavo a Roma e spesso lo chiamavo per sapere quale era la richiesta del film e quali erano le scene che dovevano essere ulteriormente girate. Quel film nacque dalla creatività.

Ma cosa intendi esattamente per creatività del montaggio?

Il montaggio creativo è il montaggio vivo e progressivo della percezione del mondo; è un dono della coscienza umana che nel suo massimo nitore ti avverte immediatamente quando c’è qualcosa di falso, falso che ognuno di noi dovrebbe divertirsi a smascherare.

Durante il montaggio dei tuoi film hai degli assistenti?

Santo Cielo! Ma perché, perché dovrei fare baciare la mia donna da qualcun altro?

Non pensi che la funzione degli assistenti possa essere anche quella di assicurare il film dal rischio di essere un percorso mentale chiuso del regista, negando in questo modo il fatto che il cinema è un atto comunicativo?

No perché la gente che vede i miei film piange, ride, capisce addirittura di più di quello che io volevo mettere dentro il film. E poi no perché io mi esprimo per l’ultimo degli uomini, il più randagio, quello che non è mai andato a scuola, quello che non sa nulla. Io parlo della realtà, e la realtà è una cultura che appartiene a tutti.

Nei tuoi film, in cui coesistono realtà e poesia, come coniughi tecnicamente queste due dimensioni? Nella storia del cinema, in generale, il piano sequenza è diventato l’espressione della realtà, mentre la sua segmentazione, tramite flash-back e trucchi di ogni tipo, si sono quasi standardizzati come espressione di un livello poetico e onirico. C’è una motivazione tecnica razionalmente accettabile?

In una società industriale altamente organizzativa, le mamme organizzano la giornata dei loro bambini; nel mio mondo, io rispetto il bambino e faccio in modo che sia lui a organizzare la sua giornata, secondo le sue modalità. Da questo nascono due tipi di persone: quella dipendente e quella indipendente: dall’industria nascono i registi dipendenti, dalla vita nascono gli autori indipendenti che organizzano da sé il loro lavoro, senza seguire delle regole prefissate.

Con la nascita dei programmi Avid, il montaggio non perde la poesia del taglio artigianale? E ancora, non perde una certa specificità e intensità? I programmi per computer, oggi, inglobano nella fase del montaggio peculiarità tecniche che un tempo appartenevano ad altre fasi della creazione di un film.

Questo secondo me è un sentimento molto conservatore; è come se vedendo il tramonto da un aereo anziché dalla cima di un monte, questo diventasse più bello e più poetico. La poesia è un mistero, e, di certo, non si ferma sulla soglia della tecnologia. La poesia è un po’ come i neutrini, le particelle del sole che passano attraverso tutto, attraverso qualsiasi forma di materia; e così è la poesia, che può apparire attraverso le forme più incredibili. Majakovskij faceva scaturire la poesia da un alto sentimento per la tecnologia, per la macchina.

Non c’è preclusione a niente, c’è solo una pigrizia culturale storica per cui le persone essendo abituate a prendere la carrozza, nel momento in cui compare la locomotiva pensano che sarebbe stato più poetico continuare ad andare con i cavalli; la poesia è dentro l’essere umano, non può derivargli dai cavalli.

Grazie.

 

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