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ARRIVEDERCI, AMORE CIAO

Titolo originale: id.
Regia: Michele Soavi
Interpreti: Alessio Boni, Carlo Cecchi, Isabella Ferrari, Alina Nadelea, Michele Placido, Kai Portman
Soggetto e sceneggiatura: Michele Soavi, Heldrun Schleef, Franco Ferrini, Marco Colli, Lorenzo Favella, Gino Ventriglia
Fotografia:  Giovanni Mammolotti
Scenografia: Andrea crisanti Rolla 
Costumi: Maurizio Millenotti
Musica: Andrea Guerra
Montaggio:  Anna Napoli
Produzione: StudioCanal, Urania
Paese: Italia  Anno: 2006
Durata:  107'
Distribuzione:  Mikado
Sito ufficiale:

Il ritorno di Michele Soavi al cinema è un gran ritorno. Il suo ultimo film per le sale  fu Dellamorte Dellamore, anno 1994, trasposizione di un romanzo di Tiziano Sclavi, creatore-autore del celebre Dylan Dog. Prima ci furono Deliria (1987), La Chiesa (1989) e La Setta (1991), tre horror che dichiaravano apertamente la formazione professionale avvenuta sotto l’ala di Dario Argento e l’amore per il truculento a basso costo di Joe D’Amato, altro suo padre cinematografico. Gli ultimi quindici anni Soavi li ha passati in tv, firmando serie di successo apesso lontane dalle sue origini: Ultimo e San Francesco tra gli altri.

Arrivederci, amore ciao: il titolo cita un passo del celebre hit della Caselli (Insieme a te non ci sto più). Verrebbe in mente un romanticismo stile anni ’60, fatto di scolarette con la cottarella per il vicino di casa e corse in Vespa sui vialetti di Villa Borghese. Invece no. Perché qui il pezzo diventa un cortocircuito, un presagio di morte e violenza, la metafora di un idealismo affogato nell’egoismo. O meglio ancora, il brano è una vera e propria interferenza: come nell’incipit, quando la voce della Caselli si insinua tra le frequenze radio che annunciano la caduta del muro di Berlino. Il film è infatti una spietata immagine del marciume che si nasconde nel benessere dell’area Lombardo-Veneta, la cosiddetta “locomotiva” del nostro paese, dove i soldi girano e tutti sembrano star bene. I temi affrontati: avidità, tradimento e mani sporche. Ingredienti di tutti i gangster movie. Ciò che distingue Arrivederci amore, ciao è la cattiveria del protagonista. Un ex-combattente della lotta armata privo di etica, rimorsi e redenzione. Anzi, il suo è un percorso che procede esattamente al contrario. Da un passato di ribellione politica ad un futuro fatto di ricchezza coltivata nel sangue, a quanto pare crocevia necessario per la riabilitazione vincente dentro la buona società.

Una storia in cui il male si moltiplica, dove non c’è scappatoia per chi vi prova ad entrare, né catarsi o consolazione. A differenza di Romanzo Criminale di Placido, dove i banditi risultano simpatici, umani e capaci di creare una simbiosi con lo spettatore (modello C’era una volta in America di Leone). Non a caso il finale mostra un gruppo di ragazzini sulla spiaggia (quella che sarà la famigerata Banda della Magliana). Monelli contro l’ordine delle giustizia. Ralenty, musica melò, mare che riflette l’alba rossastra del sole. Qui sta il successo del film di Placido: lo spettatore tifa per il criminale, imbevuto di bellezza, romanticismo e poetica ribellione. In Arrivederci amore, ciao questo non avviene. Perché il film è la storia di una carogna. Una carogna vera. Che si eccita ad esercitare il male, sodomizzare le donne e fregare gli amici. E questo lo rende un film duro e coraggioso, molto più intenso e riuscito della trasposizione del romanzo di De Cataldo. Ma, proprio per questo, la pellicola di Soavi è di difficile digeribilità. Perché è una storia blindata, in cui siamo costretti a rimanere fuori ed esserne solo testimoni. Osservatori scomodi e sottilmente torturati.

Se però è un bel lavoro quello fatto nei dialoghi e nella costruzione delle singole scene, ed interessante è la caratterizzazione dei personaggi, a non convincere pienamente è la struttura del copione: innanzitutto il conflitto del protagonista, materia così ricca e così poco “raccontata”. Perché uno che voleva cambiare il mondo diventa più spietato degli stessi criminali che si ritrova a frequentare? Capirlo per deduzione non basta. E’ una lacerazione talmente interessante che sembra ingiustificabile lasciarla intravedere solo superficialmente. E’ poi una contraddizione se il protagonista ha un “io narrante” che ci fornisce, per scelta narrativa, un approccio intimo alla sua perdizione.

Secondo limite: la prima parte del film riassume superficialmente eventi troppo importanti. La voglia di tornare in Italia dopo anni di latitanza, il carcere, la mediocrità del lavoro umile e la decisone di darsi al crimine per essere, finalmente, un vincente. Sentimenti ed eventi che passano senza lasciare alcun segno. Inutile partire cronologicamente da così lontano per dire così poco. In più manca un percorso di costruzione della malvagità del personaggio, che fin da subito ne fa di tutti i colori. E se è vero che nel libro non c’è molto di più, è anche vero che quello che funziona in letteratura non sempre è altrettanto efficace al cinema. Nella scrittura asciutta di Carlotto, pur nella sua essenzialità, è comunque ben disegnato il marciume che cresce dentro la carogna interpretata da Boni. La sua ipocrisia, il suo essere sempre stato senza arte né parte. L’aver sposato la lotta armata solo come rifiuto adolescenziale alla borghesia familiare, come opposizione a quella stessa agiatezza per cui ora, paradossalmente, è disposto a macchiarsi dei peggiori crimini.

La discesa nell’incubo è invece visivamente notevole: Soavi riesce fin da subito a tratteggiare con personalità un universo instabile e malato. Lo fa con lunghe riprese a mano, uso massiccio di grandangoli tremolanti e tagli di montaggio immaginifici che ricordano la cura e l’inventiva dei vecchi maestri dell’horror nostrano. C’è anche un uso attento del sonoro, con tappeti continui e molto curati, estremamente funzionali nel definire la malvagità che il regista tenta di raccontare. E poi il pezzo della Caselli che diventa, con il procedere del film, un jingle assordante, ossessivo, che nella sua bellezza si trasforma in uno strumento di tortura, come è la nona di Beethoven per il drugo Alex in Arancia Meccanica. Melodia sublimato ed estremizzata, in un cerchio narrativo perfetto, nell’interminabile e “splendido” omicidio finale. Cinque minuti che valgono (sadicamente) il film. La morte più innocente è infatti quella che viene filmata senza pudore e senza sconti. Ed è questa la parte più significativa della pellicola. Un primo piano apparentemente lunghissimo su un volto capace di raccontare la rabbia, la fede religiosa, l’innocenza e l’amore che tentano di resistere al male che le schiaccia.

Questo nel libro non c’è. E questo è un punto per Soavi. Un punto che, a discrezione dello spettatore, può far dimenticare quello che manca.

 

Antonello Schioppa