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QUO VADIS, BABY?

QUO VADIS, BABY?

Titolo originale: id.

Regia: Gabriele Salvatores

Interpreti: Angela Baraldi, Gigio Alberti, Claudia Zanella, Luigi Maria Burruano, Andrea Renzi, Bebo Storti, Elio Germano, Alessandra D'elia

Soggetto: Grazia Verasani, dal romanzo omonimo

Sceneggiatura:  Gabriele Salvatores, Fabio Scamoni

Fotografia: Italo Petriccione

Scenografia: Rita Rabassini

Costumi: Patrizia Chericoni, Florence Emir

Musiche: Ezio Bosso

Montaggio: Claudio Di Mauro

Produzione: Maurizio Totti per Colorado Film, Medusa

Paese: Italia Anno: 2005

Durata: 108'

Distribuzione: Medusa

Sito ufficiale: www.quovadisbaby.it

 La fine: per una volta è quasi un peccato non poterla raccontare perché quando questo film sta terminando si prova un senso di pura vertigine. È l’energia di un cineasta inarrestabile a provocarla: dalla luce solare, fanciullesca di Io non ho paura al buio claustrofobico che già ammantava Denti, Salvatores sembra ora più che mai disposto a sperimentare, a giocarsi tutto con la macchina da presa, i suoi attori e una manciata di canzoni che si incastrano alla perfezione nel tessuto delle immagini raccontandoci qualcosa di più dei personaggi che le stanno abitando.

   Ieri John Barleycorn must die dei Traffic (Nirvana) e Child in time dei Deep Purple (Denti), oggi Impressioni di settembre della Premiata Forneria Marconi e la struggente Vienna degli Ultravox, entrambe usate due volte in una storia dai toni dark, spigolosa e amara, tratta dall’omonimo romanzo della scrittrice bolognese Grazia Verasani.

   La fine ha a che fare con gli ultimi istanti filmati di Ada (Claudia Zanella), sorella scomparsa dell’investigatrice privata Giorgia Cantini (Angela Baraldi). La sua morte è un enigma che si riaffaccia a distanza di sedici anni, quando Giorgia riceve un pacco contenente alcune videocassette che la costringono ad aprire un’avvilente indagine familiare, a muoversi da Bologna a Roma (due città di luoghi “spaesati”) per cercare degli indizi utili a comprendere i perché di una morte imbarazzante.

   Indietro, perché "la verità è una bugia che non è stata ancora svelata", come recita la frase stampata sul manifesto e si procede per frammenti: immagini che sono come pezzi di vetro da ingoiare uno dopo l’altro, pagine di diario affidate alla telecamera, ricordi d’infanzia che riaffiorano in forma di fotogrammi sbiaditi, residui di vecchie pellicole Super 8.

   Memoria come rielaborazione in differita di un cordoglio, come uscita necessaria da un tunnel, dallo stesso buco nero in cui ci aveva trascinato Abel Ferrara in Blackout. Il noir rivoltato come un guanto, spogliato di ogni stereotipo diviene una soglia attraverso la quale è possibile suggerire una fuga dallo schermo verso un’esperienza diversa, forse in direzione di quel nero che delimita l’inquadratura.

   Se Ada sognava di fare l’attrice, Giorgia sostiene di non amare il cinema, non ha una vita sociale, è cresciuta all’ombra di un padre padrone che chiama Il Capitano e trascorre gran parte del suo tempo fotografando per motivi di lavoro relazioni extraconiugali. È un’anima lacerata e ricomposta in un goffo simulacro di donna che ha rinunciato a se stessa quando due eventi luttuosi in famiglia hanno colpito duro: non si concede niente, a parte qualche bevuta di troppo, i suoi dischi preferiti e cinque minuti sul pavimento con la chitarra elettrica tra le braccia. Non ha nulla da dire a Lattice (Bebo Storti), il cliente che stringe tra le mani le prove dei reiterati tradimenti della consorte. Il resto è una corazza mascolina, un tirar pugni in palestra sprizzando sudore e rabbia repressa alla maniera di Anna Manni/Asia Argento ne La Sindrome di Stendhal. Cinica quando si tratta di portare a termine con ogni mezzo necessario (anche la provvidenziale fotocamera di un telefonino) il lavoro che le hanno commissionato, impacciata quando il quarantenne docente universitario di cinema Andrea Berti (Gigio Alberti) e il commissario Bruni (Andrea Renzi) cominciano a farle una corte serrata. Frase chiave: "Passo sedici anni a dividere le scatolette con il gatto e all'improvviso stasera tutti vogliono invitarmi a cena.”  

   Scena primaria, rimorso e rimosso, buio interiore/buio cinematografico in un film spiraliforme che parla di cinema (e di morte al cinema) sia attraverso la citazione sia pescando nel serbatoio di immagini che la storia del cinema offre pezzi di Bertolucci (Ultimo tango a Parigi) e Lang (M). Una riflessione girata in digitale e a budget ridotto (2 milioni e mezzo di euro) che sboccia da una sincera dichiarazione d’amore, “atto di fede nel valore delle immagini almeno cinematografiche, non manipolabili, di lettura trasversale e sotterranea” ha scritto Silvana Silvestri (Il Manifesto, 27/05/2005).

   L’azzardo di Quo vadis, baby? apparenta una volta di più Salvatores all’ultimo Argento e alla recente rivelazione Sorrentino: ecco tre nomi lucidamente non partecipi della vanagloria del cinema italiano (sempre “normale”, accomodante, medio, mediocre, etc.). Autori che impongono un gioco di livello più alto allo spettatore: domande, rilanci, ripartenze, sguardi che (si) confondono. Non svago. Non consolazione. Solo vivida vertigine.

 

Nino G. D’Attis