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KRAFTWERK: Il Suono ritrovato

 

Non se ne erano mai andati. Non hanno mai avuto una pausa di riflessione o KRAFTWERKun vuoto creativo come si è pensato spesso in un passato recente. L'abbiamo pensato in molti, nonostante fossimo abituati a tempi elefantiaci riguardo la loro produzione dagli anni '80 in poi.

   I Kraftwerk hanno dedicato la propria vita alla ricerca, lo studio e la produzione della "loro" musica popolare; se la fase compositiva viene condotta con assoluto riserbo e applicazione, senza lasciar trapelare notizie sullo stato dei lavori, si può essere portati a domandarsi se siano in attività o no. Ma loro sono quattro operai del rumore, del suono, della musica, e portano avanti una ricerca instancabile senza curarsi del cosiddetto "music-business". Semplicemente, quando è pronto un nuovo prodotto e si sentono sicuri di aver ottenuto un reale passo avanti, in senso musicale, eccoli dare alle stampe il prodotto della loro fatica, senza eccessivo clamore. Questo significa una cosa: sono dei veri signori in campo musicale, fra i pochissimi che esistono. Dei veri musicisti, in senso letterale: produttori di musica. 

   Le caratteristiche del loro operato si possono apprendere e approfondire leggendo il buon libro di Gabriele Lunati: Kraftwerk, il suono dell'uomo macchina (ed. Stampa Alternativa). Lunati, giornalista che si occupa di musica, fa un racconto, a tratti piuttosto dettagliato, della vita artistica del quartetto; si sofferma in particolar modo sulle fonti del loro pensiero artistico, la loro storia umana, l'ambiente in cui Ralf Hutter e Florian Schneider sono nati anagraficamente e si sono formati culturalmente (ottima cosa), la musica che ascoltavano e suonavano da ragazzi; l'averla poi trovata limitante ed il conseguente sviluppo della loro idea, dapprima grezza, poi sempre più raffinata e teutonica, di come deve essere intesa la ricerca musicale, in un rinnovamento costante e non fine a se stesso. Dopo le distruzioni del secondo conflitto mondiale l'Europa continentale si trovò giocoforza investita da un'ondata culturale oriunda, di provenienza americana, apportatrice di stili che vennero rapidamente assimilati senza un preciso filtro critico, soprattutto in campo musicale.

   Tra i propositi dei primi Kraftwerk ci fu invece quello di delineare uno stile europeo nella musica popolare, quasi a voler ribadire che anche e in specialmodo nel vecchio continente si può produrre musica con caratteri definiti e personali. Come volessero dire: C'è la musica pop fatta di chitarre e batteria e c'è la nostra musica, nata qui e diversa dalle altre così come lo siamo noi che, guardateci, siamo tedeschi nel pensiero e nello stile estetico e

musicale, non c'è un solo motivo per non palesarlo.

   KRAFTWERKUn'operazione senza dubbio coraggiosa in una scena musicale dove i paesi anglosassoni andavano (e vanno) per la maggiore. Il libro di Lunati ci aiuta a comprendere questo loro pensiero con un linguaggio scorrevole e, in alcune parti persino affettuoso nei loro confronti.

   Dopo una prima ampia parte dedicata alla loro nascita artistica, vengono trattati, uno ad uno, gli album nella successione temporale, l'idea che ha portato al concepimento di ogni disco, la sua nascita, l'analisi dei testi dei brani più significativi, l'eventuale tournée che ne ha fatto seguito, il tutto in maniera schematica e precisa. In tutto il libro ho colto soltanto alcune imprecisioni: a lume di naso mi viene in mente che a pagina 59 si fa riferimento al tour di Trans-Europe Express quando poi, a pagina 136, nella parte dedicata alle date di tutti i loro concerti, non vi è traccia di concerti nel 1977. Oppure pagina 93, dove si mette in dubbio che l'album Electric Café sia la versione riarrangiata e digitale del precedente e abortito Technopop: cercando su internet si possono trovare i prototipi non definitivi della copertina dell'album del 1986, dove campeggia il titolo "Technopop", e poi, leggendo a pagina 147...Ad ogni modo finalmente gli appassionati dei Kraftwerk possono contare su questo libro, un piccolo tesoro da consigliare caldamente a chi volesse cercare di carpire il pensiero degli uomini-macchina e il loro criterio musicale: dopo averlo letto li ameranno, se possibile, ancora di più. 

   E non è finita qui. Quest'estate è uscito un album che credo si possa definire un vero evento: Minimum-Maximum, ovvero il primo disco dal vivo ufficiale dei Kraftwerk!!! (scusate, mi faccio prendere dall'emozione anche solo a nominarlo). Registrato nel 2004 durante la tournée di Tour de France Sountracks, contiene ben 22 brani di caratura davvero pregiata, scelti con buon equilibrio nell'ampio repertorio del gruppo, a parte una leggera e direi fisiologica prevalenza di brani tratti dall'ultimo album in studio. Un album grandioso, per diversi motivi: Per essere, come detto, il loro primo "live"; per la qualità delle registrazioni e del missaggio, eseguito dai due componenti più recenti Fritz Hilpert ed Henning Schmitz; per la scaletta (da Autobahn a Tour de France, chi KRAFTWERKpiù, chi meno ci sono tutti); per li brano con cui si apre l'album: The man-machine, come a dire, mettiamo subito in chiaro chi siamo...;  per il brano con cui si chiude l'album: una maestosa Music non-stop (la musica sempre continuerà); per tutti i brani compresi tra questi due; per la capacità di riarrangiarne alcuni, a volte in maniera molto pesante, mantenendone comunque lo spirito originale (Numbers, potente ed inarrestabile, metrica come nell'81, scrosta l'intonaco dai muri!); per l'averne lasciati altri praticamente intatti, freschi, decisi ed eleganti come 20 e più anni fa (The model e Neon lights, presentate nello stesso ordine dell'album da cui sono tratte, le trovo persino commoventi). Ma più di tutti per l'energia e l'impegno che dimostrano di avere ancora questi quatto distinti signori di mezza età che però sono molto, ma molto più giovani e aperti di certe decrepite e scialbe boy-band, nu metal e frescacce varie. Il calore del pubblico che esplode quando riconosce il brano del momento dopo poche note (solo in un disco come questo si può sentire il pubblico urlare di gioia a squarciagola sentendo lo sbattere di una portiera e il motore boxer di un Maggiolino Volkswagen avviarsi e andar via: sublime), o quando riappaiono sul palco dopo un cambio d'abito, dalla giacca e cravatta alle tute imitazione ologramma. O quando, per l'esecuzione di The robots, vengono sostituiti sul palco dai loro alter ego automatizzati, cioè la quasi concretizzazione di un loro vecchio sogno: disporre di robot talmente perfezionati da poterli sostituire dal vivo e durante le interviste, per potersi dedicare a tempo pieno allo sviluppo della loro musica. Sono meravigliosi.

   Tutto questo dimostra, credo, in maniera plateale che la loro musica, considerata da alcuni, nelle diverse epoche, fredda, sterile, algida, sia carica invece di pulsazioni, calore e sentimento perfettamente umani. Uomo-macchina, gli uomini insieme con le loro macchine producenti melodia in perfetta simbiosi, gli uni per le altre e viceversa.

   Personalmente trovo una sola nota dolente in tutto l'album: la versione di Radioactivity, proprio lei, col testo KRAFTWERKaggiornato e reso in qualche modo "buonista" (stop radioactivity...) forse, come si apprende dal libro di Lunati, a seguito delle accuse di benevolenza verso l'energia atomica mosse al gruppo all'uscita del disco e in anni a seguire. Mosse da persone che dubito abbiano capito qualcosa di quell'album. Fatto sta che questa versione la trovo decisamente sottotono rispetto a quella pietra preziosa che era l'originale del 1975, credo abbia perso quell'aurea che aveva e la voce sintetica che dice "stop Radioactivity" la trovo, in questo caso, inutilmente "coatta", scusate il termine romanesco ma mi sembra adatto a rendere l'idea.

Unica pecca in un album che credo non possa mancare nella discoteca dell'appassionato dei Kraftwerk, emozione allo stato puro. 

   La musica deve molto a questi quattro uomini. Insegnano a guardare sempre avanti, sempre, a sperimentare di continuo. Ci insegnano l'abnegazione del musicista alla causa della musica, eliminare il superfluo e pensare solo alla melodia che si produce, così come essi portano avanti ormai da tanti anni la loro idea di musica popolare, a partire da un tempo in cui l'elettronica era considerata elitaria e inadatta al grande pubblico.

   Chi sosteneva questo ha sbagliato clamorosamente, la storia l'ha dimostrato, visto che oggi la quasi totalità della musica pop è di base sintetica. Ci insegnano che bisogna distaccarsi dal business musicale, che se l'anno scorso è uscito un disco non è detto che quest'anno debba uscirne subito un altro. Questo li ha portati, come detto, a rinunciare addirittura a mettere in commercio un disco (Technopop, nel 1983), per di più già finito in tutto e completo di copertina, perché non lo consideravano un reale passo avanti rispetto al passato, rimandando il tutto di tre anni.

   Hanno rinunciato a collaborazioni artistiche (come con Michael Jackson), che forse avrebbero portato loro maggiore popolarità e denaro, perché semplicemente non gli interessava. Sacrosanto! E poi la loro immagine: sul palco si presentano composti, ben pettinati, dolci e appassionati,rispettosi del pubblico che li ama e che li ascolta da sempre.

   Viva Questi quattro unanissimi umanoidi (prima Ralf, Karl, Wolfgang e Florian, oggi Ralf, Henning, Fritz e Florian) e la loro musica elettronica, o robot-pop come piace definirla a Ralf. Chi li ama no può farne a meno. Noi fans li avremo sempre nei nostri cuori. Beats per minute. 

Massimo Carloni

 

www.kraftwerk.com