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DANIELE LUTTAZZI: Money for dope (Krassner/Emi) |
Con la musica, l’autore di Adenoidi, Barracuda e Tabloid pare abbia flirtato per anni. Fin da bambino, nientemeno, tra studi di pianoforte e solfeggio e un nonno che suonava il corno nella banda di Rimini. Testardo, per sua stessa ammissione, ha continuato ad applicarsi instancabilmente anche molto dopo lo scioglimento del suo primo gruppo, i Ze Endoten Control’s, attivi sulla scena romagnola tra il ’78 e l’81. Money for dope, copertina austera, testi in inglese, total time: 43’ e 24” arriva un po’ a sorpresa a rivelare al grande pubblico un altro lato del signor L., nato Daniele Fabbri a Santarcangelo di Romagna nel 1961. Arriva, si lascia ascoltare (senza pregiudizi, please), già preannuncia un capitolo secondo ad inizio 2006. Il bandolo dei dieci brani è la storia (vera) di un’amica morta di overdose alla fine degli anni ’70. “L’idea era quella di comporre un musical elegiaco che raccontasse alcuni momenti di quella vicenda umana tragicamente interrotta: gli affetti familiari, le esperienze di vita, l’amore.” leggiamo nelle note del booklet.
Le
luci di Broadway, gli arrangiamenti ricercati (di Massimo Nunzio) che
prevedono innesti di cori fantasiosi ma anche un sound spigoloso, tra pop e
new wave con punte di jazz che cattura l’attenzione nel primo pezzo, quel
Silence non a caso datato 1979. Oppure l’incedere ritmico bowiano, gli
inserti funk con basso e fiati potenti in Doom.
La voce di Luttazzi ricorda in maniera impressionante quella di Stan Ridgway. Accoppiata al lavoro di una supersquadra di musicisti reclutati nel giro jazz italiano, riesce nell’intento di non annoiare mai, neppure nei due-tre momenti deboli dell’album (su tutti Easy to be fooled, un po’ troppo in zona Donald Fagen). Chiaro e tondo: vent’anni dopo valeva davvero la pena metterle fuori, queste canzoni. As the Talmud says: “A miracle doesn’t happen every day”.
(J.R.D.) |
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