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CORMAC McCARTHY: Non è un paese per vecchi

(Einaudi, pp. 252, € 17,00; traduzione di Martina Testa)

 

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Una voce off racconta di un ragazzo di diciannove anni giustiziato nella camera a gas di Huntsville per l’omicidio di una ragazzina. Poi c’è un vicesceriffo che ha appena arrestato un tipo che se ne andava a zonzo con “un aggeggio tipo bombola di ossigeno per i malati di enfisema o qualcosa del genere” e subito dopo la scena di una sparatoria, anzi, di una strage tra narcotrafficanti al confine tra Texas e Messico. È qui che il cacciatore di antilopi Llewelyn Moss,  reduce dal Vietnam, ha una botta di culo quando trova una borsa piena di dollari. La botta di culo si trasforma presto in una condanna a morte inappellabile e il cacciatore nella preda di un sicario psicopatico di nome Anton Chigurh. Il Male puro: “La gente che fa la sua conoscenza tende ad avere un futuro molto breve. Anzi, inesistente.” dice sul suo conto l’enigmatico Wells. Male che semina violenza e induce all’emulazione (il ragazzino che raccoglie la pistola del killer sul luogo di un tremendo incidente, l’autostoppista adolescente sedotta dal fascino del bandito in fuga, poi Llewelyn stesso, uomo comune catapultato in una vita spericolata, mosso dalla convinzione di potercela fare con l’astuzia).

   Il risultato, neanche a dirlo, è un mattatoio. Roba da Peckinpah e John Woo con colonna sonora di Sam Cooke, Nick Cave, Leonard Cohen, Hank Williams. Mentre l’adrenalina sale, pagina dopo pagina, Il pensiero corre a un film immenso come Getaway, con Steve McQueen: molti soldi, molto piombo, molto sangue tra stanze di motel devastate e polvere del deserto che si infila in gola. Troppo truculento, secondo qualche inorridito critico statunitense che si è affrettato a bollare No country for old men come un romanzo che punta tutto sull’action e sullo splatter per far presa sul pubblico. L’anima c’è, invece. È Cormac McCarthy, che diamine. Una potente voce, semplice e antica, della letteratura contemporanea, uno sguardo capace di trovare, come il Derek Raymond di Il mio nome era Dora Suarez, toccanti aperture di poesia dentro scenari di indicibile crudeltà. Sua è la forza dei dialoghi secchi, di personaggi indimenticabili come il Giudice in Meridiano di sangue o l’infelice coppia di fratelli-amanti ne Il Buio fuori. Perché McCarthy – e in questo non sarebbe azzardato tracciare un paragone con Jack London - rende espressiva finanche la crosta dura di un canyon dalle parti del Rio Grande. Perché è uno scrittore capace di sovrapporre con precisione chirurgica le meditazioni sul mondo e sugli uomini dell’anziano, umanissimo sceriffo Bell (fino alla fine del libro ho immaginato il personaggio con la faccia segnata dal tempo di Johnny Cash) alla trama thriller di questa sua recente fatica portando il lettore verso altri lidi, altre suggestioni tutte dettate dalla voce della coscienza in un sistema che perde la ragione.

   Un romanzo nel romanzo, poema tragico che parla, senza mai rifugiarsi nella metafora, della ferocia che striscia nel tessuto della società, dell’America di oggi e del suo canto del cigno, del suo nucleo guasto meglio di qualsiasi saggio sociopolitico uscito dopo il fatidico 11 settembre.

 Stasera a cena Loretta mi ha detto che sta leggendo san Giovanni. L’Apocalisse. Ogni volta che mi metto a parlare di come vanno le cose lei trova qualche passo della bibbia che fa al caso mio, e allora le ho chiesto se l’Apocalisse aveva qualcosa da dire sulla piega che sta prendendo il mondo, e lei ha risposto che me l’avrebbe fatto sapere.”

   Un western crudele, malinconico e disperato quanto Gli Spietati di Clint Eastwood. Anche se ci sono più automobili che cavalli. Anche se la follia omicida ha sostituito una volta per tutte le vecchie scazzottate e adesso i conti più indigesti si regolano a colpi di Uzi: segno che i vecchi tempi sono definitivamente tramontati e Bell e quelli come lui non li rivedranno più, condannati a vivere gli ultimi giorni con il tempo (e il Paese) che si ritrovano addosso.

 

(N.G.D’A.)