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DEATH IN VEGAS: Milk it (Concrete)

 
DEATH IN VEGAS: Milk it

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È la terza volta che recensisco un disco dei Death In Vegas su queste pagine, per cui presumo che il pezzo che sto scrivendo in questo momento potrebbe tranquillamente intitolarsi Perché ho sviluppato un’ossessione virale per i D. I. V.

   Motivi? A iosa, sbarbi, garantisco. Ci metto un nanosecondo a spiattellarveli sul naso e per una classifica di base cito:

   1) Fanno una musica che spacca.

   2) Hanno un nome maledettamente figo: altro che Doves, Books, Interpol, Franz Ferdinand et similia.

   3) Fanno una musica ultramegasexy che per sdraiare le tipe nel più breve tempo possibile funziona meglio della classica accoppiata Coca Cola +  bolond gomba. Meglio delle scorze di mandarino sottaceto e della mandragola allucinogena mescolata al pane eucaristico, se volete saperlo.

   4) Dal precedente Satan’s circus, uscito pochi mesi fa, hanno mandato a fare in culo senza troppi rimpianti la  Sony BMG.

   5) I loro pezzi hanno a che fare con cose strane che mettono seriamente in discussione l’avvenire del mondo e di noi giovani che andiamo giocondi per il mondo. Argomenti come il Piùrealismo, la Cinisacreligione, il Distuopianesimo e le date di scadenza che si riferiscono al prodotto lordo in confezionamento integro correttamente conservato (in sigla: P.L.I.C.I.C.C.).

   6) I loro pezzi sono zolfo e mercurio triturati con sublimato corrosivo, calomelano e orpimento giallo, zenzero, cinabro e succo di limone mischiati a latte di donna.

   7) I Death In Vegas fanno una musica che spacca (repetita juvant!)

   Milk it è un greatest hits doppio che comprende una scelta di brani del periodo su major 1998-2002, ovvero da Dead Elvis a Scorpio rising, più un succulento piatto di remix (alcuni dei quali firmati da Trevor Jackson, Dave Clark e dai sempre più perversi Two Lone Swordsmen). Bello l’artwork di copertina molto acido underground con la griffe bruta di Orin Brecht che probabilmente rende omaggio alle mamme degli Elvis di domani. Gradito il ritorno del sovrano screamadelico Bobby Gillespie in veste di special guest nell’altrove inedita One more time, uno di quei motivetti che danno senso compiuto all’avvertimento: TENERE IL MEDICINALE CHE STATE ASSUMENDO A SCOPO SPECULATIVO FUORI DALLA PORTATA DEI BAMBINI.

   E poi Aisha, cantata da Iggy Pop e So you say you lost your baby con Paul Weller decisamente al suo meglio fanno ancora tremare le gambe a distanza di qualche anno: due autotreni in corsa che si incrociano dentro una galleria buia alla fine dell’universo conosciuto. Quando arriva il momento di Scorpio rising, colpo fatale vibrato dal basso alla molle polpa del cuore, non posso fare a meno di chiedermi per l’ennesima volta come abbiano fatto gli Oasis a rinunciare a cuor leggero alla produzione di Tim Holmes e Richard Fearless. Saranno davvero teste di cazzo come si dice in giro?

   Se ascolto Dirt arriccio la lingua e ne spingo la punta sul palato come fosse l’asse di rotazione.

   Se è Girls a girare, vedo davanti a me una sciamana vestita come uno spirito guerriero, armata di sciabola e tridente: farà del mio corpo TUTTO ciò che voglio?

   Se metto Hands around my throat dimentico di botto tutti gli esercizi propedeutici ad un buon orientamento nello spazio profondo, così lo psiconauta che è in me torna a sgranare gli occhi smarrito e stregato.

   Sensazioni forti.

   La parolina magica è PERSONALITÀ: in un periodo in cui di originale si è andato creando ben poco, il duo Holmes/Fearless assembla con stile una musica rocktronica permeata di vibrazioni che mai debordano nel lezioso o nel già sentito, un sound che emerge intenzionalmente minato dalle pulsioni e dal desiderio, dagli spettri usciti da una selva di ricordi in cui convivono Elvis The Pelvis e il ronzio della macchina da presa di Kenneth Anger (gran satanasso), William Gibson e i corpi di Hemut Newton.

   Parliamoci chiaro, ragazzi: il figlio di puttana che state leggendo adora i Death In Vegas!

(J.R.D.)


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