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THE DEARS: No city left (Maple/Universal) 

 

Strana creatura The Dears. Li pervade uno sfrenato romanticismo che avvolge le canzoni di un’aura drammatica ed epica. Quel senso d’inquietudine e tragicità tanto cara a certe band inglesi, tipo Muse per intenderci. Vanno ad infoltire la brillante scena canadese che da ormai qualche anno si è consolidata su ottimi livelli grazie a gruppi come Broken Social Scene e Apostle of Hustle, di recente visti dal vivo in Italia con ottimi riscontri.

   I Dears ad un primo ascolto sembrano riprendere il discorso di gruppi come Pulp e Gene che a metà degli anni Novanta si proposero di rivitalizzare vecchie glorie quali Smiths e David Bowie. Pop rock, glam con venature psichedeliche tanto basta per ottenere i favori di critica e pubblico, leggermente oscurati solo dal successo planetario di Oasis e Blur. Ad un ascolto più attento vengono fuori altri accostamenti. Quei romanticoni dei Tindersticks per esempio, soprattutto per quel modo di comporre la canzone con momenti distesi e ipnotici che poi subiscono crescite improvvise sostenute da una sezione d’archi impazzita. Sicuramente i Catherine Wheel per il cantato tra l’esasperato e l’introspettivo in un fiume di melodie zuccherose. E non poteva mancare un pizzico di shoegazer con batteria amplificata e chitarre sature a creare l’onirico effetto wall of sound.

 I momenti più riusciti sono forse quelli di lunga durata come Export the worst/Apos cos she di quasi otto minuti dove la band ha la possibilità di far lievitare con calma le sue atmosfere languide e spettrali o la funerea Pinned together, falling apart che dopo i primi trenta secondi di pura cacofonia si tramuta in una triste e disperata ballata. Roba che non sentivo dai tempi dei Suede.

No city left è un disco sicuramente insolito, iridescente, dal suono molto amalgamato in puro British Style, tuttavia in certi momenti è un po’ forzato nel suo tentativo di diffondere il verbo dell’amore puro e cristallino a tutti i costi, un po’ come l’aver messo troppa marmellata su una fetta di pane o aver esagerato con lo zucchero nel caffè. Alla fine del disco lo struggimento è notevole, sfiancante, e viene voglia di ascoltare qualcosa di meno impegnativo.

   Uso eccessivo di violini o un atteggiamento cinico e intransigente da parte del sottoscritto?

 

Jo Laudato


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