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MADONNA: Confessions on a dancefloor (Maverick/Warner) |
Vitalità e carnalità senza scrupoli; mistero di un sogno che rifiuterà perpetuamente di assolvere la realtà: ecco le armi dell’icona. Le avevano Elvis e Jim Morrison, Marlene Dietrich, Mae West e Rita Hayworth, oggi le ritroviamo in Johnny Depp e Uma Thurman, nella signora Ciccone e in Kylie Minogue. Oltrepop: una pelle iniziatica eterna, inalienabile, che non è sinonimo di grossolana maschera. Sto scrivendo un pezzo sul nuovo album di Madonna, il migliore da diversi anni a questa parte. Curioso come il 2005 abbia segnato il credibile ritorno in pompa magna di tre nomi degli anni Ottanta del secolo scorso: New Order con Waiting for the siren’s call e adesso (nei tempi supplementari), i Depeche Mode del superbo Playing the angel e, appunto, la (pri)Madonna di Confessions on a dancefloor. Nessuna nostalgia, solo una semplice, piacevole constatazione: salvo rarissime eccezioni (White Stripes, !!!, LCD Soundsystem i primi e probabilmente unici nomi che mi sovvengono), al momento è dura trovare gente di primo pelo in grado di sfornare dischi memorabili. Sul nuovo sforzo produttivo di Madonna è già stato detto praticamente tutto: è brutto, è bellissimo, è un capolavoro, è una ciofeca, è piatto, è pompatissimo, è furbo, è Donna Summer rianimata dai Daft Punk, è il cavalier Moroder immortalato mentre si spazzola i lustrini dalla giacca, è la mirror ball del Danceteria che si schianta su Ground Zero, è Warhol nell’era della videocomunicazione, è il frutto di un felice connubio tra la star, il “già testato” Mirwais e Stuart Price (a.k.a. Jacques Lu Cont, a.k.a. Les Rhythmes Digitales), è testosterone a caccia di sesso, è aerobica pura e semplice, è un tesoro di omaggi più o meno nascosti (Abba, Stooges, Prodigy, i Police di Every breath you take) e solenni autocitazioni (Like a prayer innestata nel tessuto di Push). Vocoder. Tacchi a spillo. Paillettes. Capelli alla Farrah Fawcett. Un pizzico di french touch nel calderone del soul dell’avvenire e un po’ di spiritualità come ai tempi di Frozen. Dimentico qualcosa? Ah, certo: gli Stooges riprocessati elettronicamente in I love New York (ah, se l’avesse cantata Kim Gordon dei Sonic Youth, chissà quante eiaculazioni tra i critichini indie!) e il recitato del rabbino Yitzhak Sinwami in coda a un brano (Isaac) che ha procurato un violento attacco di gastrite a mezza comunità ebraica. Qui si balla. Qui si roteano le pupille e il bacino. Qui si muove il culo sul serio, e il ritmo ti avvolge, ti collega a un cavo elettrico innescando una botta sacrosanta tirata al limite della vertigine. Curve e velocità supersonica. È la vita oltre Magalli, il maestro Mazza, Lory Del Santo intervistata da Bruno Vespa, il carovita e le palle che ti si gelano mentre aspetti un autobus in ritardo di quaranta minuti. “Forget your problems”, sussurra la diva in Future lovers. A questo serve il pop perfetto: buon umore, iniezioni di energia. Se ascolto Hung up e Jump, la merda scompare. Se mi perdo nell’intelligente esperimento retro-disco di Get together, nelle pulsazioni kraftwerkiane di How high oppure nell’inciso New Order oriented di Forbidden love, il deserto che ho intorno mi appare improvvisamente più suggestivo. È il funk. È l’effetto-risucchio. È un’illusione. Pochi minuti di inganno dei sensi senza effetti collaterali. Madonna è sempre stata/sempre sarà la grande effigie seduttrice, naiade e satiressa, un’apparizione che ammalia, una tentatrice che Baudelaire avrebbe incluso volentieri nel suo delizioso bestiario di esseri a parte, una Circe che domanda scusa (Sorry) in otto lingue umane dopo aver tirato fuori il maiale che è in te. Dopo averti mandato al collasso. Una scossa sulla pista da ballo del mondo, con tanti saluti dall’ex ragazza di Bay City, Michigan che un bel giorno arrivò nella Grande Mela covando grandi progetti. Una lezione di stile che ancora adesso, dopo molte battaglie, ha il sapore di una provocazione. 47 anni e non sentirli. Ecco di cosa parliamo quando parliamo di pop. (J.R.D.) |
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