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UNKLE:Never, never, land (Mo Wax/Island)

 

UNKLE:Never, never, land (Mo Wax/Island)Voglio fare un esperimento: rivedere al cinema Alien (l’unico vero film girato da Ridley Scott, il resto è ciarpame) ascoltando in cuffia il nuovo lavoro degli Unkle. Un album cosmico. Un classico dell’immaginario cinematico mentale. Se non avessi già eletto 100th windows dei Massive Attack disco dell’anno, il top l’avrebbe conquistato la seconda missione offensiva della creatura partorita dal cervellone James Lavelle (ex critico della rivista di musica jazz ‘Straight No Chaser’, poi fondatore dell’etichetta Mo Wax).

Dopo cinque anni di assenza (l’esordio con Psyence fiction è datato 1998) e l’abbandono del B-boy bianco DJ Shadow gli Unkle erano attesi al varco da fans e vili calunniatori. Tracklist e copertina con i folletti extraterrestri realizzata da uno staff di grafici guidato da Ben Drury circolavano in rete da mesi. Idem per l’assortimento degli ospiti convocati in studio di registrazione, tanto che un fottuto purista che abita nel mio palazzo quando ha saputo che il cantante dei Queens Of The Stone Age Josh Homme sarebbe stato della partita ha avuto un travaso di bile. E finalmente eccolo qui, Never never land, già stroncato da quelli che hanno le orecchie intasate di cerume, osannato da pochi per la sua natura obliqua (come cantava Battisti: "chissà se è rock o no?"), per il suo negarsi alle mode leziose del momento pur attingendo a diverse sonorità che potrebbero tranquillamente definirsi ‘cool’ (In a state, con l’ex Pulp Jarvis Cocker al sintetizzatore lancia una strizzatina d’occhio allo stile Ibiza di Paul Oakenfold). Intanto, il posto di DJ Shadow è ora occupato dal cantante/polistrumentista Richard File e come terzo ‘Man From Unklè troviamo il produttore Ant Genn. Niente predominanza di matrici hip-hop a questo giro, in favore di ritmi potenti (il singolo Eye for an eye; Safe in mind, trainato dalla voce di Homme) alternati ora a suggestive ballate elettroniche (What are you to me; Glow), ora a labirintici recessi space-psichedelici come in I need something stronger, frutto della collaborazione con Brian Eno o nella conclusiva Inside (i Pink Floyd restituiti alla ragione dopo anni di lasagne e Ferrari?). La grammatica della dance viene sfruttata al meglio per strutturare un lavoro che lo stesso Lavelle definisce "non-dance". Una porta misteriosa si apre sulla Twilight Zone del pop britannico invitandoci ad entrare in una dimensione permeata di armonia, beats e melodia, pulsazioni deep-house ed estatici inserti orchestrali.

Siamo nel regno della fantasia, dove tutto è possibile e le aspettative dei discografici vanno a farsi fottere: difficile spiegare in altro modo l’effetto ‘disco incantato’ che apre Panic attack, brano magistralmente costruito su campionamenti da Shès lost control dei Joy Division e Variation III sur le theme de Bene Gesserit di Richard Pinhas (dall’album Chronolyse del 1976). Il picco emotivo ed estetico dell’album risiede proprio qui, in questa incantevole porzione occupata altresì dalla torpida voce di 3D dei Massive Attack (Invasion) e dalle vecchie ‘Rose di Pietra’ Ian Brown e Mani (ora bassista dei Primal Scream) in quel capolavoro da cinque minuti che è Reign (Gesù, quanto mi mancano gli Stone Roses!!!).

Il bello di Never never land è che una volta giunti all’undicesimo e ultimo pezzo, il rapimento estatico (o "bramosia dello scapriccio", come diceva Nino Manfredi in Brutti, sporchi e cattivi) è tale che viene automatico spingere nuovamente il dito sul tasto play. Penso proprio che la prossima volta che andrò al cinema mi porterò dietro il lettore cd portatile.

 

(J.R.D.)

www.unkle.com