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PANKOW: The Art of gentle revolution (Contempo/Goodfellas)

PANKOW: The Art of gentle revolution“Here we go again / Be happy FOREVER / Be happy forever / HAPPY as the horses / Happy as the horses / Happy as the horses SHITE...”

 

1984 (o era l’Ottantacinque?): qualcuno mi ha registrato un nastro C90 mettendoci dentro Crackdown e Just fascination dei Cabaret Voltaire, poi roba di Foetus, Coil, Einstürzende Neubauten, D.A.F., Psychic TV (il singolo Roman P.) e, se non ricordo male, anche un paio di tracce dal vivo dei Laibach. In coda, un pezzo potente fin dal titolo: God’s Deneuve, inciso dagli italiani Pankow.

  «Italiani?»

  «E già!»

  «Belli tosti.»

   Nota un po’ dandy (dei poveri): quella che vivevo a quei tempi era una stagione di polluzioni notturne causate da frequenti visioni di Catherine Deneuve vampira («Non esiste liberazione, caro, né riposo. Non esiste fuga»). E cominciavo ad interessarmi all’elettronica, meglio se intrecciata al punk. I Pankow furono un colpo di fulmine, riuscivo a vederci dentro scorie dei Residents, dei Killing Joke, dei P.I.L. e, fattore non trascurabile, quella marcia in più che faceva la differenza rispetto al resto della scena italiana coeva. Non erano per il mercato italiano: se ne sbattevano altamente di Firenze e Bologna, dell’I.R.A. di Alberto Pirelli e dei darkettoni o dei pirati basetta lunga del sabato sera. Avevano un sound scarno e diretto. Avevano un signor cantante. Avevano testi in inglese e tedesco fuori di testa. Roventi, malsani, velenosi, lynchiani (da pelle d’oca la loro versione di In Heaven, dalla colonna sonora del film Eraserhead). Erano l’erosione/erezione siderale, il bagliore accecante che rovescia iperbolicamente i termini del desiderio: il corpo percorso, snervato da segni vuoti, la testa rivolta oltre lo steccato degli stereotipi.

 

  “I don’t want to be nice / I don’t want to be kind / I want to show you my worst feelings...”

 

   Firenze, (un gelido) dicembre 1989: all’interno del negozio Contempo c’è la fila per contemplare a distanza ravvicinata una delle 100 copie in marmo con targhetta in oro 18 carati della limited edition di Gisela, secondo album dei Pankow. Una follia per pochi, un’opera d’arte che valorizza il cereo artwork concepito da Gottfried Helnwein per quello che ancora oggi è considerato da molti il lavoro migliore del progetto fiorentino sviluppatosi intorno alle figure di Maurizio Fasolo (o più semplicemente FM) e del cantante Alex Spalck.

   Compro una copia ‘normale’ del disco, insieme ad altri vinili dei quali non serbo alcun ricordo. A casa dell’amica che mi sta ospitando c’è un bellissimo pianoforte a coda ma (Gesù!) manca il giradischi: mi toccherà aspettare qualche giorno prima di poter accedere ai segreti sonori della bambina cadavere.

 

  “I’m talking ‘bout me and MY ding dong / I’m talking ‘bout me and MY ding dong / I’m talking ‘bout me and my BEST friend / I’m talking ‘bout me and my last FRIEND...”

 

   Gennaio 2006: sono trascorsi 23 anni dai primi vagiti della creatura (per la cronaca, il pezzo We are the joy sulla compilation Gathered ed il demotape Throw out rite). Dopo l’estemporanea reunion del 2002 con l’album Life is offensive and refuses to apologise ed il mini del 2004 Fuckart (a symphony for wankers) i Pankow sono “in sonno”, però è da poco in circolazione un fastoso box curato da Fasolo in persona che raccoglie la produzione più rilevante del gruppo, da Freiheit fuer die sklaven (1987, copertina firmata da Giger, Mr. On-U Sound Adrian Sherwood al banco mixer) a Treue hunde (1992). Quattro album in digipack (c’è anche il fondamentale documento live del 1990 Omne animal triste post coitum) più un E.p. con un poker di brani originariamente inclusi nei pochi esemplari marmorei di Gisela e Pankow – The Movie, denso libro di memorie firmato da Spalck. Mancano un po’ di cose, tra le quali (ahia) God’s Deneuve, poi Walpurgisnacht, musica composta per un balletto del Florence Dance PANKOW: The Art of gentle revolutionTheatre (in origine nel catalogo della barese Minus Habens), il singolo prodotto da Goh Otoda Remember me, l’unico album in italiano uscito nel ’96 con Gianluca Becuzzi dei Limbo al posto di Spalck (ma questa è un’omissione più che giustificata), altre rarità apparse nell’oggi introvabile antologia della Iptarro Wodka, erbeeren und weitere katastrophen.

   Metto i soldi da parte: DEVO avere il cofanetto. Vittore Baroni ce l’ha. Paolo Bertoni ce l’ha. Perché non io?

   The Art of gentle revolution è un incanto, a cominciare dal lavoro grafico svolto dall’artista argentino Lionel La Mattina. A breve potrebbe arrivare anche un dvd con videoclip editi ed inediti e le immagini girate durante i tour europei ed americani, ma intanto le orecchie riscoprono la spettacolare unicità di una formazione davvero internazionale che, come ha osservato Baroni sulle pagine della rivista Rumore, non avrebbe sfigurato nel catalogo Mute.

   Puoi fare sesso ascoltando Happy as the horses shite o la cover di Warm leatherette. Puoi salire sull’autobus che ti riporta a casa dopo una merdosa giornata al lavoro canticchiando Gimme more. Questi sono i Pankow. Questa è la degna celebrazione di una storia importante.

 

Nino G. D’Attis