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JARVIS COCKER: JARVIS  (Rough Trade)

JARVIS COCKER

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Jarvis Cocker ha 43 anni, è stato il frontman dei Pulp e dopo la colossale ciucca del brit-pop sembrava destinato a tornare nel più triste anonimato. Un dandy fuori tempo massimo. Uno spocchioso teatrante. Uno che avrebbe voluto essere David Bowie in tutte le sue più riuscite incarnazioni ma ha dovuto accontentarsi (complice anche il tardivo approdo al successo) di sgambettare tra Damon Albarn, i tremendi fratellini Gallagher e le vomitevoli pose plastiche di Brett Anderson. Regno Unito anni ’90 (tra un po’ ci sarà il revival, tranquilli!). Momento migliore: ai Brit Awards edizione 1996, con il nostro uomo che, palesemente fuori di testa, invade il palco durante l’esibizione di Michael Jackson, si cala le braghe e finisce al fresco per una notte.

   Jarvis Cocker: ai gloriosi tempi, gli amici di bisboccia lo chiamavano El Jarvo e difficilmente lo avrebbero immaginato in un piccolo ruolo in Harry Potter e il Calice di Fuoco (compare nel film interpretando il cantante della band che si esibisce al ballo della scuola di Hogwarts). Ora si è trasferito in Francia, beve quasi esclusivamente acqua minerale, è diventato papà e (l’avreste mai detto?) canticchia qualcosa mentre spinge il passeggino.

   Le 14 tracce del suo primo album come solista (trascurando l’estemporaneo progetto electroclash Relaxed Muscle, messo in piedi insieme all’amico Richard Hawley) pur essendo molto lontane dagli standard di This is hardcore (1998) e We love life (2001), ovvero i due dischi migliori della band di Sheffield, rappresentano una rinascita artistica degna di attenzione. Cocker, che dal vivo omaggia Lou Reed chiudendo ogni show con la cover di Satellite of love e che negli ultimi anni ha avuto il privilegio di collaborare con Scott Walker, Marianne Faithfull, Nancy Sinatra e Charlotte Gainsbourg, si reinventa attraverso un album da aspirante crooner pop alla Morrissey, un lavoro da outsider di lusso che ha studiato a fondo sia il Lennon solista che la vita, le opere, i pensieri del signor Leonard Cohen (ma anche – e si sente – il ricco canzoniere di Elvis Costello, le metamorfosi di Paul Weller, certe cose dei Kinks).

   Chitarra dosata e molto mellotron, pianoforte, vibrafono, archi e cori. Le parole d’ordine, fin da Loss adjuster  (pezzo d’apertura diviso in due sezioni) sono di sicuro: “pathos” e “classe”. C’è spazio per gli accenni sbarazzini in From A to I e i tributi ai giganti del passato (una grande canzone come Don’t let him waste your time, con quel sound e quel testo che dice he can have his space / and he can take his time / and he can kiss ya where the sun don't shine / baby, don't let him waste your time  non avrebbe sfigurato sui dischi migliori degli Who). L’ironia viene fuori soprattutto nel titolo dato alla ghost track del disco: (Cunts are still) Running the world, ma l’atmosfera è prevalentemente confidenziale (ottime la ballad I will kill again, giocata su pianoforte e voce, poi la struggente Baby’s coming back to me). Momento rock’n’roll (con virata verso lidi glam): Fat children. Momento di songwriting maturo: Disney time.

   Melodia ed eccellente padronanza del suono: ecco gli ingredienti che rendono interessante – in alcuni momenti addirittura magico - questo album. Fidatevi: chi scrive non si è mai strappato i capelli per Jarvis Cocker e i Pulp.

 

(J.R.D.)

 

 

 

 

http://myspace.com/jarvspace