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PRIMAL SCREAM: Riot city blues (Sony)

Qualcuno potrebbe saltare sul cassero e gridare al tradimento, liquidare questo nuovo album degli Scream come un passo indietro, un ritorno alle atmosfere di stretta derivazione stonesiana che anni fa avevano caratterizzato il bruttino Give out but don’t give up (1994) registrato insieme a George Drakoulias e George Clinton. È facile vederla in questo modo quando il nome in copertina è quello della band inglese che più di ogni altra ha saputo osare l’impossibile, percorrere lande sconosciute incidendo dischi epocali (Screamadelica e XTRMNTR su tutti). Ma Bobby Gillespie è il capitano di una nave di folli, sappiamo anche questo. Bobby è il pazzo furioso che picchiava i tamburi nella prima formazione dei Jesus & Mary Chain (per favore, qualcuno riesce a mettere pace tra i fratellini Reid e a riportarli di corsa in uno studio di registrazione?). Bobby è l’uomo che offrì un porto sicuro a Gary Mounfield (per gli amici Mani), uno dei bassisti più influenti al mondo, dopo la fine degli Stone Roses. Bobby è amico per la pelle di Kevin Shields, mente eccelsa dei My Bloody Valentine. Bobby è amico di Kate Moss, dei New Order e dei Chemical Brothers, ve lo ricordate?

   Ecco allora che la scelta di Martin Glover, a.k.a. Youth, già bassista dei Killing Joke e adesso produttore, aveva fatto fantasticare i più intorno a un disco completamente diverso. Un Ufo. Un Big Bang electro-dark, per ipotesi. Aspettative deluse: niente roba per le piste da ballo alternative, niente elettronica addizionata alle chitarre, nessun guizzo sperimentale. Dieci canzoni racchiuse in una copertina illustrata da uno scatto fotografico di William Eggleston. Dieci proiettili veloci imbevuti di blues, psichedelia, glam e altre meraviglie.

   Onesto, questo bisogna dirlo. L’onestà non è mai mancata nella storia di questo gruppo (una storia ricca di gemme e ottimamente riassunta nella recente antologia Dirty Hits). Così adesso i ragazzi si vogliono divertire col rock’n’roll puro e semplice, roba sanguigna, old school, suonata con strumenti vintage (tra gli altri, harmonium e mandolino) e impreziosita dalle comparsate del chitarrista Will Sergeant (Echo & The Bunnymen), Alison Mosshart (The Kills) seconda voce in Dolls e Warren Ellis (Bad Seeds) al violino in Hell’s comin’ down.

   Preso così, Riot city blues è un disco più che perfetto per la torrida estate: dal singolo ruffiano/scanzonato Country girl uscito a metà maggio e subito schizzato in classifica in GB (anche grazie al divertente video girato a Los Angeles da Jonas Akerlund) alle giravolte che citano lo scibile del rock (dagli Who, ai New York Dolls, dagli Stooges a Bob Dylan), fino a pezzi che si imprimono bene in testa fin dal primo ascolto (Suicide Sally and Johnny Guitar oppure We’re gonna boogie).

   Se ne fottono, gli Scream, e questo è un bene: dall’alto della loro lunga carriera hanno visto nascere e morire gruppetti insignificanti, roba prefabbricata ad uso e consumo della stampa musicale inglese. Le hanno cantate all’America di Bush ma, perbacco, amano pur sempre alla follia le leggende americane, le luci di Las Vegas e quelle di Nashville, i misteri di una notte al volante di una Buick rossa lanciata nel deserto, i miti come Gram Parsons, Townes Van Zandt e Johnny Cash.

   Concediamoglielo. Sono veri, gli Scream. Sembrano qui per dirci che il futuro è un’incognita, un ragazzino che tiene tra le mani un serpente e sembra uscito da una storia di Joe R. Lansdale. Beveteci su una birra. Rilassatevi. Prendetevi un giorno di riposo dal lavoro e godetevi la festa. Il rock’n’roll (sempre sia lodato!), quando non si genuflette ai vizi del sistema delle case discografiche, vive di questo: che altro volete?

 

(J.R.D.)