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EMIDIO CLEMENTI: L’ultimo dio (Fazi, pp. 180, € 13,00)

 

Conservo tra le cose più care i quattro lavori incisi dai EMIDIO CLEMENTI: L’ultimo dioMassimo Volume nello scorso decennio e ancora oggi non trovo una ragione valida per scinderli dalla produzione letteraria di Emidio Clementi che di quella meteora così atipica nel panorama musicale italiano è stato fondatore, bassista e voce. Impossibile separarli soprattutto da Gara di resistenza, la raccolta di racconti pubblicata dall’editore Gamberetti nel 1997, perché quegli album erano già delle antologie di storie accompagnate da suoni taglienti, elettrici, essenziali che non sottoscrivevano alcun mandato a intenti radiofonici, al ritornello da hit parade. Quella dei Massimo Volume era letteratura spacciata ai concerti, nei negozi di dischi, piuttosto che in libreria. La primavera ci porta adesso l’una e l’altra cosa a breve distanza, dal momento che L’ultimo dio precede di poco l’uscita dell’album Stanza 218 a nome El-Muniria (insieme a Massimo Carozzi e Dario Parisini) per la Homesleep Records.

Con una copertina che ricorda curiosamente quella di Violator dei Depeche Mode, il romanzo arriva a tre anni da La Notte del Pratello (Fazi) e a cinque da Il Tempo di prima (DeriveApprodi) configurandosi come una storia che aveva l’urgenza (più che plausibile) di essere raccontata, un’autobiografia che scava fino a recuperare frammenti di ricordi cuciti insieme dai versi, dagli episodi della vita dello scrittore Emanuel Carnevali, autore de Il Primo dio (Adelphi), morto nel 1942 di encefalite letargica e vissuto in America da dropout, passando da un lavoro umile all’altro.

È il cliente di un ristorante greco a Bologna a regalare all’aiuto cuoco Clementi una copia de Il Primo dio, invitandolo a leggere quel libro di straordinaria bellezza scritto da un genio senza fortuna, in fuga da tutto, affamato di vita e alla vita aggrappato disperatamente come un naufrago su una povera zattera. In quelle pagine, Emidio ritrova una parte di se stesso, un groviglio di inquietudini che lo ha portato ad abbandonare San Benedetto e la famiglia colpita dalla rovina economica alla morte del padre per addentrarsi in una parabola randagia, un viatico alla ricerca di risposte a domande che aggrediscono più del freddo di Stoccolma e amplificano la solitudine dello straniero in terra straniera.

"Non parlo mai con nessuno e le parole cominciano a marcirmi dentro. Si incantano. Sono una cantilena che si fissa nel cervello per ore."

Ricordi come cicatrici, come l’ombra di quella morte che "porta via le cose" o di un Johnny Thunders che sul palco, quattro anni prima di andarsene per overdose in una stanza d’albergo a New Orleans, esibisce anzitutto la maledizione di dover sembrare un ragazzo per sempre. Memorie dolorose, inframmezzate da apparizioni bizzarre: zia Marcella, convinta che il mondo che spia dall’uscio della sua casa di campagna sia assolutamente brutto e cattivo; Spinelli, lo stratega dei campetti di calcio a cavallo "di una orribile Graziella"; Brunelli, rappresentante di una ditta di computer assediato da crisi mistiche e di sonno; Pino, il commerciante terrone di Rolex e carati sempre arrapato, poi Rigoni, presenza ormai fissa nelle storie di Clementi ("Su Rigoni ho scritto più che su ogni altra persona che conosco. Forse troppo. A volte non vedo l’ora di riuscire a raccontare qualcosa senza tirarci in mezzo lui. È anche la sua speranza. Ma Rigoni sta bene dappertutto."). Queste figure mitigano un po’ l’amarezza che attraversa le pagine de L’ultimo dio, romanzo sincero perché intimo, opera che interroga ciascuno dei segmenti che la compongono sulla dose di narrativa che contiene quanto si ferma sulla pagina e, infine, ulteriore conferma della grandezza di uno scrittore prestato al buffo circo rock peninsulare. Talmente grande che sarebbe un errore gravissimo confonderlo con i tanti rockers, cantautori, etc. che prima o poi arrivano a concedersi un estemporaneo (e spesso non indispensabile) salto nella narrativa.

(N.G.D’A.)