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TWO SISTERS

TWO SISTERS

Titolo Originale: Janghwa, Hongryeon

Regia: Kim Ji Woon

Interpreti: Lim Su-jeong, Mun Geun-yeong, Yum Jung-ah, Kim Kap-su

Soggetto e Sceneggiatura: Kim Ji Woon

Fotografia: Lee Mo-Gae

Scenografia: Jo Geun-Hyeon

Costumi: Ok Soo-kyung

Musiche: Lee Byung-Woo

Montaggio: Lee Hyeon-Mi

Produzione: Masulpiri Films

Paese: Corea del Sud Anno: 2003

Durata: 115'

Distribuzione: Medusa

Sito ufficiale: www.twosisters.co.kr

 Lenta, macchinosa e inesorabilmente soporifera, questa versione del classico della letteratura popolare coreana Janghwa, Hongryun (Fiore di Rosa, Loto Rosso), già adattato per il cinema altre cinque volte in un arco di tempo che va dal 1924 al 1975. Racconto gotico, claustrofobico, incentrato sui pochi personaggi di un triste nucleo familiare, che in patria ha riscosso un enorme successo di pubblico e critica, spingendo la Dreamworks di Steven ‘Facciamo Un Po’ Di $’ Spielberg ad acquistarne prontamente i diritti per un remake americano (in arrivo nel 2005), sull’onda di The Ring.

   Le Two sisters del titolo sono due ragazzine traumatizzate dal suicidio della madre e in lotta aperta con la (prevedibilmente) perfida matrigna. Papà è un idiota. Nessuno capisce le due sventurate avvezze a far la spola tra le mura domestiche e la solita, glaciale clinica psichiatrica. L’arrivo delle mestruazioni viene vissuto come un segno inequivocabile dell’Apocalisse prossima ventura (meno male che in bagno c’è una scorta di assorbenti buona per un anno intero). Pronti? Vai col dramma! Su-mi e Su-Yeon contro Eun-Joo (interpretata dalla brava Yum Jung-ah, unico elemento interessante della pellicola), instaurano un duello sfibrante che Kim Ji Woon (The Quiet family, 1998; The Foul king, 2000; Coming out, 2001) dirige sovrapponendo al tessuto narrativo un’attenzione spropositata nei riguardi dell’impianto estetico.

   Film d’interni, inteso come involontario spot del mobilificio sotto casa ben fotografato da Lee Mo-gae. Film immodesto, fradicio di tautologie, leccato come i parquet inquadrati insistentemente dalla macchina da presa. Film di ciabatte, vestaglie, lampade, panneggi. Simulacro depalmiano-hitchcockiano (il senso di colpa, l'ossessione del rimosso, l’angoscia amplificata da luoghi e oggetti ritrovati), con un’apatia dello sguardo che arriva a spegnere, complice l’assenza totale di qualsivoglia impulso ironico, la musicalità del racconto. Perfino nell’accenno di catfight finale tra Su-Mi e una matrigna dai nervi ormai a pezzi il ritmo è morto e sepolto.

   Kim Ji Woon NON è Kubrick e questo NON è Shining, come vorrebbe qualche  critico scriteriato che ha gridato senza pudore al capolavoro per questa parata di carrellate, primi piani, dettagli di maniera. E di certo non può esserci horror nel già visto (televisori sintonizzati su un canale morto, adolescenti inquiete coi capelli davanti agli occhi, fantasmi che sbucano dall’armadio o dallo scomparto dei detersivi in cucina): nessun brivido, nessuna tensione, solo sbadigli che fanno maledire la moda degli horror(i) made in Corea.

 

(N.G.D’A.)