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DAVID PEACE: Millenovecento83 (Marco Tropea Editore, pp. 484, € 16,00; traduzione di Marco Pensante)

 

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Ultimo capitolo del ‘Red Riding Quartet’, a breve distanza dalla pregevole traduzione italiana di 1980 (Tropea, 2004). Siamo al capolinea e David Peace divora il lettore con un romanzo che porta all’estremo lo stile tutto allucinazioni e adrenalina dei precedenti: nel maggio del 1983, sciagurata era thatcheriana, l’Inghilterra precipita in un altro incubo sanguinario di bambine scomparse e mostri della porta accanto. Nome della vittima: Hazel Atkins. Età: dieci anni. Scomparsa mentre tornava a casa da scuola, direzione Bradstock Gardens.

   Lo Squartatore.

   Gli Squartatori.

   L’orrore.

   Anche di sabato, quando non c’è scuola, i bambini se ne stanno a casa e le strade sono vuote mentre “alla radio suonano di nuovo quella canzone sui fantasmi”.

   Maurice Jobson, detto Il Gufo, sovrintendente capo della polizia di Millgarth (Leeds, Yorkshire), affronta le domande pressanti dei giornalisti seduto dietro un tavolo di formica, con un microfono davanti alla bocca e ben poco da dire.

  “Io sono il Gufo e da queste lenti spesse e da questa montatura nera vedo tutto...”

   Jobson non è l’unica voce del libro. È un pezzo del coro assemblato da uno scrittore che molti considerano ormai a pieno titolo il grande erede di Derek Raymond. Una voce che si aggiunge, sovrappone, si interseca a quelle dell’avvocato John Winston Piggott, difensore dell’omicida Michael Myshkin, recluso in un ospedale psichiatrico, a quella di BJ, ragazzo di vita che nella notte di Natale del 1974 sta tagliando la corda dopo un fattaccio criminale avvenuto nel pub Strafford House, a quelle di molti comprimari, di una folla di comparse (poliziotti, cronisti, gente della strada). Voci e rumori: questo il (wall of) sound della prosa di Peace. Aggressivo, politicamente e letterariamente scorretto, ovvero senza orpelli, romanticismi stucchevoli, cagate che strizzano l’occhio al manuale dell’onesto fabbricante di long-sellers.

  “Due sterline e poi su per le scale del Raffles, il buttafuori è uno che conosci e ti dà una pacca sulla spalla ma col cazzo che ti fa lo sconto perché la troia che sta all’ingresso si scopa il capo, però tutto sommato fa piacere vedere che Graham lavora ancora qui perché non si sa mai cosa può capitare, ed è esattamente questo che dici alla fichetta che incontri al banco, è una a posto, proprio, ballate un po’ con David Bowie e limonate un po’ con Bonnie Tyler e ti torna in mente che Gareth ormai è collassato (...)”

   Così sempre, per pagine e pagine. Se ne frega, Peace, di me e di voi, del nostro bisogno di tirare il fiato ogni tanto. Se ne infischia alla grande di chi reclama un riassunto coerente delle puntate precedenti. Se ne sbatte soprattutto di quelli che comprano un libro ogni 12 mesi, giusto per avere qualcosa da sfogliare sotto l’ombrellone evitando di incrociare troppe volte lo sguardo assassino del tipo steso accanto alla gran cula in perizoma con l’accento venexiano.

   Il lato marcio di quel che ci frulla quotidianamente nella zucca. Gli scheletri vergognosi di una nazione. I topi di fogna e le forme occulte delle cose. La memoria collettiva manipolata dal potere, dai media, dai fautori di un ordine ultrareazionario. La corruzione delle idee, delle buone intenzioni, del prossimo tuo e di chi in teoria dovrebbe proteggerti dal male. Peace, osservatore asciutto e feroce dei graduali processi di trasformazione sociale, scrive di questo: è un martello pneumatico che buca il comune senso del pudore e ci versa dentro acido muriatico senza troppi preamboli. Frasi come “Se non è l’alba manca stramaledettamente poco...” non aprono un ‘altro’ mondo, un modellino sterile e asettico, sbucciano il mondo in cui viviamo per mostrarci uno scempio, un colore ripugnante, un odore nauseabondo. Nessuna via di fuga, solo trappole disseminate dappertutto.  

 

(N.G.D’A.)