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GIUSEPPE GENNA: L’Anno luce (Marco Tropea Editore, pp. 256, € 13,00)

 

Questo libro è un’incisione su ghiaccio che tenta di raffinare l’idea in una forma dai profili netti e sublimati: “Il primo romanzo neoborghese italiano”, c’è scritto sul risvolto di copertina.  Non è il thriller che gli aficionados di Genna si aspettavano dopo Grande Madre Rossa, o meglio dopo Non toccare la pelle del drago, visto che già G.M.R. può essere considerato un preludio al nuovo corso. Non è Le Teste, titolo rifiutato dall’editore Tropea proprio all’inizio della collaborazione con un Genna fuoriuscito da Mondadori; soprattutto non è una storia legata al personaggio dell’ispettore Guido Lopez. È piuttosto un non-luogo della tragedia in cui fatti e personaggi, cause ed effetti vengono incontro al lettore da un complicato processo di estrazione che è sintesi e archetipo delle sue possibili varianti: un livello più profondo, interiore, che si incastra negli strati nascosti della psiche, negli episodi più crudi di ciò che chiamiamo esistenza.

   Sfrutta i codici della fiction catodica e quelli degli spot pubblicitari della telefonia mobile. Deforma (ma non più di tanto) lo spettacolo pacchiano delle conventions aziendali (“Un enorme cellulare. Un enorme orecchio. Un enorme occhio che sbatte la palpebra davanti a un enorme schermo di un umts gigantesco aperto, e dentro lì si vede la faccia che urla dell’amministratore delegato, in diretta”). Immagini che alimentano un vuoto nel momento stesso in cui creano un’illusione di contatto, di reciprocità. Olografie che sembrano emergere dopo una lunga attesa nelle tenebre.

   L’anno 2005 ha impegnato Genna in un parto gemellare: da un lato la sceneggiatura televisiva per l’eccentrico mini serial Suor Jo diretto con mano malferma dall’amico Gilberto Squizzato; dall’altro un libro che spiazza per la sua natura barocca e al tempo stesso anoressizzata, disarticolata, oracolare  e concettuale come un ibrido tra Don De Lillo e il Pasolini di Teorema e Petrolio. Ferreo nel suo riferire di un mondo che ha subordinato i rapporti umani all’avidità e al profitto, eppure lontano dal fascino e dalla compiutezza di Nel nome di Ishmael. È un’esplorazione, un percorso di ricerca, una fase nuova per l’autore milanese, e come tale deve essere accolta nei suoi pregi e difetti: romanzo di transizione all’interno del quale persistono scorie, residui, corpuscoli che appartengono alla vecchia pelle di Genna, pur nella prevalenza di una costante dualità tra corpo narrativo pensante e corpo narrativo esibito che è anche tensione fra la ricerca di perfezione formale e profondità delle tematiche trattate.

   Fin dalle prime battute il lettore annaspa, si trova a disagio, arretra da una posizione presumibilmente comoda ad un’altra che non offre vie di fuga facili: arduo, se non proprio impossibile identificarsi con i personaggi che ci accompagnano in un  tour de force narrativo che pure ingloba riferimenti a nomi e fatti della cultura di massa a noi contemporanea (Michael Jackson e il Michael Douglas interprete di Wall Street, il nuovo papa e il leggendario playboy Gigi Rizzi a Saint Tropez, due infermieri rozzi e depravati presi di peso da Kill Bill volume 1 di Quentin Tarantino, poi le canzoni di Franco Battiato, un vecchio horror come Hellraiser, la cagnetta Laika lanciata nello spazio a bordo dello Sputnik 2 nel 1957). Le ombre che si muovono all’interno del romanzo sono ectoplasmi polari e sinistri: il Mente è un top manager di una multinazionale delle telecomunicazioni che viaggia verso i cinquanta, è dotato di un’intelligenza sorprendente, sa volare come un rapace nei cieli del potere che manipola la vita sociale e i suoi meccanismi d’interazione. “La sua grandezza è aziendale. La sua statura è emotiva.”, ci dice il narratore.

   Il Mente ha una moglie, Maura, vittima di un trauma misterioso che all’inizio del romanzo la precipita in una sorta di coma psichico. E Maura, apprendiamo, è stata l’amante di un giovane morto suicida, l’autore di un corposo manoscritto dal titolo (ohibò) Il Capolavoro Misterioso.

   Con il Mente, Big Jim dalle pupille blu collocato all’interno di un grande gioco di manipolazione mediale, Genna ci introduce in un’atmosfera di falsità: per istinto alla scalata, il suo protagonista è un predatore abituato a bendare gli occhi degli altri con le menzogne, pedina di un macroscopico Risiko che sfrutta l’abilità di un uomo (il Faccendiere) modellato dallo scrittore sulla figura di quel Francesco Pazienza che fu dietro le quinte del crack del Banco Ambrosiano, della loggia P2 e delle morti di Calvi e Sindona.

  “È, questo uomo, uno che si definirebbe un personaggio oscuro, tenendo presente che serve luce per avere idea dell’oscurità. È un’eminenza non grigia, ma nera. Nemmeno: egli muta colore.”

   Le relazioni tra i vari personaggi: tutte cucite da un doppio filo di ambiguità, specchio di anime molto oltre la bancarotta morale, incapaci di parlare e comunicare, di operare una netta e possibilmente duratura distinzione tra il vero mondo e le realtà artefatte create dal potere. Gli ambienti: glaciali, impersonali, simili a bozzoli asettici (la casa del Mente, dotata di enorme schermo al plasma; la sala presidenziale di Komtel, oppure l’albergo Dom Perignon, teatro dei tradimenti del Mente e degli accoppiamenti pedofili del Profeta).

   Ecco allora che, all’interno dell’ormai nutrita produzione dello scrittore incensato da Der Spiegel e The New Yorker, L’Anno luce  risulta una prova anomala soprattutto quando si palesa in qualità di veicolo monocromatico di un’immersione anche rischiosa all’interno di mondi in collisione (l’animale, il metafisico) denunciandone in questo modo lo scadimento. Tutto è un vortice (anche l’eccitazione battagliera che pervade il terzo capitolo), una spirale minacciosa che prelude al crollo, alla fine di ogni gesto replicato e aggrovigliato in quell’iperrealtà che allontana ulteriormente lo spettatore dalla realtà.

   Non è facile, e a dirla fuori dai denti è dura arrivare alla fine da soli, senza un Caronte come Lopez. Poi viene voglia di rileggere con calma, di recuperare/assimilare i passaggi più ostici, o almeno quanto riesce ad affiorare da una prosa roboante, a tratti satura di avverbi e cacofonie. Tutto, ne L’Anno luce è “oversize”, allusivo ai rapporti di potere: anche la lingua, certo. Una sfida anche questa, lanciata ai lettori in un gioco di meccanismi rivelati, di attese create e puntualmente disattese. Vale la pena raccoglierla, in attesa della prossima mossa.

Nino G. D’Attis