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Tsukamoto, A snake of june: Recensione, Carne morente sotto la pioggia, Filmografia Tsukamoto


CARNE MORENTE SOTTO LA PIOGGIA: A PROPOSITO DI A SNAKE OF JUNE

 

"Ma uscendo dai limiti, o morendo, noi tentiamo di sfuggire al terrore che incute la morte, e che anche la visione di una totalità al di là dei limiti può dare."

(Georges Bataille, L’Erotismo)

 

Sullo schermo, corpi in bianco e nero virati al blu. E pioggia, tanta: la black rain di giugno avvolge, investe, ingoia come una bocca fatta di miliardi di gocce un triangolo umano sul quale aleggia l’ombra della morte. Lei-lui-lui: lei (Rinko/Kurosawa Asuka) prima degli altri due è la pelle del film, superficie che si muove lenta dilatandosi in una danza autoerotica pronta a rivelare un San Sebastiano dietro i veli di Salomé.

Indecente è non essere se stessi. Sconcio è rimbalzare ogni giorno sulle pareti di quel buco nero che chiamiamo convenzione adeguandosi all’apparenza e rinunciando all’estasi. Uso e costume sociale: anche cose così semplici si rivelano apparati di potere che producono tumori. Molto più che regole opprimenti di una società gerarchizzata, a ben vedere (nel sottile confine tra ipocrisia e pudore, in Giappone sono in commercio le pillole per deodorare le feci, da noi – faute de mieux - vedere uno spot televisivo sui preservativi è un evento più unico che raro).

L’acqua che scorre nei canali di scolo è quella di un noir che sembra una fiaba (fiaba-noir: forse questa è la stessa pioggia che apriva Suspiria di Argento). La città potrebbe essere Metropolis: grigio agglomerato in cui gli esseri umani si trovano circondati da un sistema che impone regole e gusti, visione di un inferno cementato sulle fobie private. Rinko, voce al telefono che salva aspiranti suicidi e moglie insoddisfatta del represso Shigehiko (Yuji Kotari), arriva gradualmente alla speranza di riuscire a salvare se stessa subendo la persecuzione di Iguchi (lo stesso regista), un maniaco armato di Nikon che immortala i suoi momenti più intimi sottoponendola ad un singolare ricatto: "Fai ciò che vuoi e ti restituirò i negativi".

Per anni, Iguchi ha fotografato oggetti. Malato di cancro allo stomaco e scampato ad un tentativo di farla finita, si interessa morbosamente alla giovane donna seguendola ovunque dopo aver intuito il malessere che la imprigiona. Per lei, Iguchi organizza i rituali di una trasgressione, un’uscita di sicurezza dai limiti che, pur davanti alla prospettiva di una mutilazione necessaria (perdere un seno, privare chirurgicamente il corpo di una chiave d’accesso al desiderio maschile), possa farle conservare la dignità. A suo modo, Iguchi si fa carico di educare anche Shigehiko all’amore incondizionato per la consorte. Con un black-out, ne affina la percezione del mistero mostrandogli la vera Rinko in una stanza segreta, poi per strada, il corpo vestito di sola pioggia e un vibratore infilato nella vagina. Sgomento, Shigehiko non può che arrendersi ad una rivelazione che parte essenzialmente dalla bruciante sconfitta di quel principio di decoro che lo aveva portato alla sterilità dei sentimenti, vera e propria materia morta del suo quotidiano. Occhi da risanare con una terapia voyeuristica. Odioso, il suo sguardo bovino in macchina. Miserabili i gesti, la maniacale ossessione per l’igiene domestica: pulire, strofinare e mai scopare. L’impuro, lo sporco come antagonista in un’ottusa e al tempo stesso distorta adesione al modello del bishōnen, il tipo asessuato, alieno/alienato, con l’idea fissa di purificarsi dalle ‘parti inquinatè del mondo esterno.

Si può pensare a Rokugatsu no hebi (questo il titolo originale di A Snake of June) come ad una ‘version’ de Il Gioco di Milo Manara con il mood di The Addiction di Abel Ferrara. Primo film di Shinya Tsukamoto distribuito in Italia, nono titolo della filmografia di questo regista/sceneggiatore/attore/art director/montatore/direttore della fotografia nato a Shibuya, Tokyo, Japan nel 1960. Diverso l’uso della colonna sonora, ancora una volta affidata a Ishikawa Chu ma qui severa, da requiem, rispetto ai rumorismi che commentavano le immagini di Tetsuo. Lunga la gestazione (la prima idea risale a quindici anni fa) e quasi assente l’elemento fantastico. Se cambiano alcuni ingredienti, non è cambiato Tsukamoto. Lo riconosci dal ritmo sincopato del racconto, da uno stile che nella maturità ha conservato l’impatto violento dei caustici esordi (discorso che vale anche per David Cronenberg, cineasta al quale Tsukamoto è stato spesso accostato), l’attenzione mai mediata dal simbolo a sesso, vita e morte in opere brutalmente eleganti come le fotografie di Andres Serrano o del conterraneo Nobuyoshi Araki, artista che in Giappone continua a subire la censura e che nel 1990 documentò con le immagini la consunzione per malattia della moglie Yoko.

Rokugatsu no hebi parla delle convenzioni che diventano parte di una strategia di controllo. "Fotografare è fermare il tempo, fotografare è uccidere" è una famosa frase di Araki. Il voyeur che perseguita Rinko vuole distruggere il bozzolo che avvolge l’oggetto delle sue attenzioni per liberare una donna annichilita dall’insoddisfazione fino all’impossibilità di decidere le sorti del corpo. È un invito a rispondere al richiamo delle pulsioni, ad esporre la pelle che vibra in un orgasmo liberatorio in faccia a chi si estingue a rilento stroncato dal cancro del perbenismo. Si muore anche (soprattutto) di questo, oggi. E questa morte la chiamano ‘vita civilè.

 

Nino G. D’Attis