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The Tracker    What is black and what is white and who is leading whom?

 
The Tracker di Rolf De Heer

Regia: Rolf De Heer

Interpreti: David Gulpilil, Gary Sweet, Damon gameau, Grant Page

Fotografia: Ian Jones

Montaggio: Tania Nehme

Scenografia: Beverley Freeman

Musica: Graham Tardif

Produzione: Vertigo Productions Pty. Ltd.

Distribuzione: Fandango

Durata: 98'

Nazione: Australia  Anno: 2002

 

Una storia molto diversa e meno densa di quella del Bad Boy Bubby (1993), quest'ultimo un vero cult-movie molto più di Edward mani di forbice per la mia generazione, cresciuta con i primi timidi futurismi e i migliori splatter, le grandi "mentalità" e ossessioni di Lynch, Carpenter, Barker...insomma pensavo che rimanesse solo, quel film, unico e stralunato, irripetibile, anarchico, eretico stravolgimento del The Wall Pink Floydiano di cui su questa virtual-testata bisognerà prima o poi assolutamente parlare. Invece ecco The Tracker, grazie alla Fandango (toc toc, c'è nessuno?) che in un certo modo prosegue il filone dei "reclusi" e quindi dell'anelito di libertà (tipicamente blues) che contraddistingue spesso il lavoro, peraltro molto eterogeneo, di De Heer (ricordiamo al volo anche l'atmosfera nuda e dolcemente sospesa de La Stanza di Cloe, 1996, prodotto in Italia).

Un decennio dopo il bad boy (Nicholas Hope) tenuto dalla madre nel guscio fetido di un seminterrato fino alla sua casuale liberazione per le strade del mondo, Rolf torna a parlare di freedom e di una guida indigena australiana (olandese, l'autore ha vissuto in Australia fin dall'età di 8 anni, nda) in schiavitù che deve indirizzare un manipolo di anglosassoni verso un suo simile, responsabile, secondo la leggi dei cow-boys, dell'assassinio di una donna bianca. Ovviamente la guida ha ben lieve interesse ad aiutarli, mentre i bianchi sembrano, chi per un verso, chi per un altro, poco inclini a far vera giustizia ma piuttosto a perseguire la "propria" strada ideologica (da persecutore - The Fanatic, da indeciso - The Follower o da cinico - The Civilian) nonostante percorrano tutti e quattro, materialmente, la stessa via.

Per quanto mi riguarda è proprio quest'ironia che sembra condurre la pellicola invece delle "importanti considerazioni filosofiche" cantate nei blues di accompagnamento e fedelmente tradotte sui sottotitoli della pellicola.

Certo il sing-a-long potrebbe indirizzarci verso posizioni nette sulla condizione nera, ma il regista sembra utilizzarlo a mio parere quasi esclusivamente come elemento d'ambiente, col desiderio d'esprimere ben altro da questo. Mi spiego perché è la prima volta che mi capita di osservare un simile uso sullo schermo: la morale contenuta nelle liriche non è l'assunto teorico del film, SERVE solo ad una caratterizzazione d'ambiente. Come per profumarlo, senza che la chimica del prodotto, dall'aria, passi a intridere gli oggetti e a reagire chimicamente con i messaggi più importanti del film, invece sottolineati da un altro notevole contrappunto: i dipinti, che interrompono letteralmente la visione, per qualche secondo, immortalando la scena appena passata sotto i nostri occhi.

Questi ultimi sono still-images che non vogliono fotografare la scena, ma lo sgomento dell'animo di chi guarda e, sapientemente, riescono spesso a sincronizzarsi con le reali sensazioni di turbamento alla visione cosicché ogni spettatore è un test a parte da raffrontare con le "stazioni" di calvario inventate con ottima sensibilità dal regista.

Regista che effettivamente ha un'idea molto tribale dei Rolf De Heerprecetti, della morale, delle leggi, dei sentimenti. Ne applica diverse ai neri e ai bianchi e rappresentano solo un veicolo di tradizioni attraverso cui si esprime una morale più forte e marcata, quella dell'universo umano che si rispecchia in quello personale, e ben delineato nel protagonista, "la guida".

 

Infatti durante il viaggio attraverso il territorio praticamente vergine della frontiera, le cose si fanno sempre più dure per tutti; salta alla luce la capacità indigena di assorbire le dominazioni e con essa uno degli assunti più concreti del film: la riduzione in schiavitù implica la delega dei lavori più duri ed impone fiducia nel prigioniero, ma "mai fidarsi" come si recita alla fine del film o esagerare nell'esercizio del proprio potere perché significa perdere il controllo delle operazioni e un fatale ripristino delle libertà individuali.

E con questa favoletta filmata, dipinta e cantata l'autore sembra dirci: "Troppo semplice? No, è proprio così!".

Andrea Capanna

 

sul web: http://users.bigpond.net.au/andrewmackie/thetracker