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CHUCK PALAHNIUK: Cavie

(Mondadori, pp. 416, € 15,00; traduzione di Matteo Colombo e Giuseppe Iacobaci)

 

 

CHUCK PALAHNIUK: Cavie

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Ogni volta è un’impresa: compri un libro della Collezione Strade Blu, ti sforzi di passare sopra la qualità scadente della confezione (carta, grafica, impaginazione) e preghi di non incappare nei soliti, terrificanti strafalcioni  di traduzione ed editing che a notte fonda ti tengono sveglio fino al primo raggio di sole.

   Esce l’ultimo romanzo di Palahniuk. Lo strillo ad effetto in copertina è griffato Ammaniti. Un po’ di conoscenti ti romperanno l’anima con la domanda da un milione di dollari: «Perché sei fissato con questo scrittore?». Tu li lascerai ai loro Crichton, Brown, Meltzer, Crepet. Hai altro a cui pensare. Cose importanti come: sarà meglio di Ninna nanna e Diary? E: bestemmierò come un vero credente ogni volta che i miei occhi inciamperanno negli svarioni che hanno reso tristemente famosa la collana dal bollino giallo?

   Mai giocarsi la testa con il diavolo, porca miseria!

   Due esempi belli grossi, solo due per non infierire:

 1)  Pag. 35, righe 22/23: qualcuno riesce a spiegarmi che c@$$o succede?

 2) Pag. 56: stiamo per leggere Un racconto SU Miss America o, DI Miss America? Cambia il senso, accidenti se cambia!

   Ben altro discorso merita, per fortuna, la qualità di questo singolare romanzo di storie. Perché l’Uomo di Portland è tornato ai vertici creativi dei primi quattro libri e questa è indubbiamente una notizia-cardiotonico. Perché Cavie (Haunted, nell’originale), oltre ad essere un corposo zibaldone di idee ingegnose, bizzarre, avvincenti imbevute di umor nero, un tour de force di personaggi inquieti, è anche un’acuta, seria riflessione sul doppio volto della scrittura nel XXI° secolo: Arte e commercio, inteso come ponte levatoio da calare giù con ogni mezzo necessario per uscire dall’anonimato, dalla miseria del quotidiano. Proliferazione che si scontra con una sconfitta immensa: “Tutti sono dei critici, ma pochi si preoccupano di creare qualcosa”, ha osservato recentemente Palahniuk. 

   Nella compagnia di aspiranti scrittori che nelle prime pagine accetta di ritirarsi per tre mesi in un luogo isolato ci sono San Vuotabudella, Madre Natura, Miss America, Lady Barbona, il Conte della Calunnia, Brandon Whittier, il Duca dei Vandali, la signora Clark, la Direttrice Negazione, il Reverendo Senzadio, il Mezzano, Sorella Vigilante, lo Chef Assassino, Camerata Stizza, l’Agente Lingualunga, l’Anello Mancante, la Contessa Preveggenza, la Baronessa Assiderata e Miss Starnuto. Una porzione di umanità accattona umiliata, degradata, ridotta alla catena dai lavori più idioti, dalla zombificazione di massa, accoglie o addirittura inventa ex novo prove iniziatiche all’interno delle quali la morte non è più la fine ma l’elemento che dà inizio ad una vita di gruppo. 

  “Per tutto quel tempo, avremmo scommesso sulla nostra capacità di creare un capolavoro. Un racconto o una poesia o una sceneggiatura o una biografia in grado di dare un senso alla nostra vita. Un capolavoro capace di riscattare la nostra schiavitù da un marito o da un genitore o da un’azienda. Capace di farci guadagnare la libertà.”

   Inconsolabile aspettativa che un giorno il mondo possa offrirci un podio e ascoltarci. Un’armata Brancaleone strappata al suo tempo normale e chiusa all’interno di un cinema abbandonato, luogo in cui, pagando un biglietto, il sonno della ragione genera notoriamente mostri. Come in un reality show, con i concorrenti occupati a programmare (in un gioco funebre, ossessivo, barocco) i movimenti tattici del giorno in funzione del loro potenziale mediatico. Come il binario terminale della follia: ben oltre lo splatter del racconto intitolato Budella (in apparenza il più estremo del lotto), ci sono frasi come: “Amiamo la guerra da sempre. Nasciamo con la consapevolezza che siamo qui per combattere. E amiamo la malattia. Il cancro. Amiamo i terremoti. In questo parco divertimenti che chiamiamo pianeta terra, il signor Whittier dice che noi amiamo le foreste incendiate. Il petrolio che si riversa nel mare. I serial killer.”

   Frasi, pezzi di storie, tipi umani o subumani: è il nostro mondo allo specchio. Non una superficie deformante, attenzione: Palahniuk usa da sempre il grottesco sapendo di raccontare quella realtà affamata di ricompense materiali che finge di riconoscersi nella perfezione artificiale delle modelle sulle pagine delle riviste di moda, nel CHUCK PALAHNIUKculto di un’esistenza sotto i riflettori, benedetta dal premio Pulitzer (esemplare a tal proposito la storia Il Canto del cigno), in poche parole scaraventata nel vuoto.

   Psicopatologie. Sinistri paesaggi interiori. Atroci buffonerie. Questi gli ingredienti neanche tanto segreti di Cavie, gli stessi che da Fight Club in avanti hanno reso Palahniuk un autore pari a Burroughs, Ballard, Ellis, Welsh: puoi amare il suono duro della sua scrittura oppure odiarlo visceralmente, non esistono mezzi termini. Puoi entrare nei suoi libri lasciandoti andare all’effetto dirompente, all’intensità di una visione in cui le punte apicali dedicate ai lati più segreti dell’umanità diventano via via forza attrattiva, letteratura intesa come allegoria di verità. Oppure puoi tenerti a distanza di sicurezza, cercare una letteratura rassicurante, comoda, neutrale, debatteriologizzata, provvista di regolare data di scadenza.  

   Per quanto mi riguarda, ho già fatto la mia scelta.

(N.G.D’A.)