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STEFANO TASSINARI: L’Amore degli insorti

(Marco Tropea Editore, pp. 175, € 12,00)

 

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Stefano Tassinari chiude una sorta di trilogia della memoria, aperta con L’Ora del ritorno a cui è seguito I Segni sulla pelle. La chiude, dopo una vicenda di lotta partigiana e una sui giorni del G8 a Genova, con una storia che parla della sua generazione. Una storia tangente alla propria esperienza personale, ai propri percorsi politici e culturali, quasi che una forma di pudore lo portasse ad arrivarci cauto, dolce e pesante, malinconico e rigoroso. Come se un percorso non rettilineo, ma a spirale, lo avesse portato infine a toccare i propri nervi scoperti e il sangue che non si coagula attorno a quegli anni ’70 non cicatrizzati.

   Anni che rigurgitano come marchetta televisiva nella forma raccapricciante di pentitismo genuflesso, quando qualche caso giudiziario viene scongelato e servito pronto a un pubblico indignato e senza memoria storica, da folkloristici  presentatori. Nelle immagini in bianco e nero, nel culo aperto di una Renault 4, nella violenza venduta frettolosamente come cieca quando invece, mai come in quegli anni, cercava bersagli precisi.

«… gente che falsifica la Storia a colpi di spocchiosi editoriali, o di “asservizi” televisivi, pagati trenta denari al pezzo. Con questi ho ancora il dente avvelenato, appena ammorbidito dalla coscienza delle mie contraddizioni. Perciò li giudico senza andare oltre, con la rabbia trattenuta a stento e l’obbligo a mantenere qualche vuoto di memoria. »

«… perché chiamarci terroristi va bene a tutti, anche se noi non abbiamo mai colpito alla cieca, né ammazzato passanti, turisti, impiegati di banca, studenti innamorati. Tra terrorismo e lotta armata c’è una differenza abissale, ma a ribadirla oggi si rischia il linciaggio. »   

   L’architetto Paolo Emilio Calvesi è tra quelli che l’hanno passata liscia. E sono tanti, verosimilmente. È lo stesso Tassinari a ipotizzarlo: se è vero che uno dei carcerieri di Moro è stato tirato in ballo da una pentita dodici anni dopo i fatti, devono essere davvero tanti quelli passati indenni (da un punto di vista giudiziario) pur avendo creduto nella lotta armata come estrema forma di contrapposizione allo Stato.

   Uno Stato che non si è mai dissociato, né pentito.

« Andrà tutto come sempre: il corteo da Piazza Maggiore, il minuto di silenzio alle dieci e venticinque, i discorsi dal palco, i fischi all’esponente di governo, la richiesta dei parenti di scoprire la verità sui mandanti, qualche articolo indignato sui giornali e poi nulla, fino al 2 agosto dell’anno successivo. Lo Stato non si pente e i nomi non li fa. »

   Nessun pentito ha sputtanato Calvesi. Nessun covo è stato violato con lui asserragliato all’interno, nessun poliziotto lo ha falciato a morte nel corso di una rapina. Al contrario, fu lui in una notte tragica a uccidere un vigilante che aveva appena ferito una compagna, una che aveva creduto alla risposta armata come unico atto di resistenza possibile. Ma Calvesi non è finito a marcire in carcere, chiuso in un mutismo gelido. Si è chiamato fuori al momento giusto, forse appena in tempo e il destino ha previsto altro. Un atavico spirito di sopravvivenza lo ha reso una sorta di disertore, costringendolo a tagliare di netto il rapporto con la persona amata, Alba, che alla lotta armata non aveva voluto arrendersi anche se animata dalla stessa ideologia.

   La retta della sua esistenza è stata sparata in un altrove normalizzato. Verso una professione rispettabile. Verso una casetta di una località balneare dove una moglie in carriera custodisce i figli alle prese con i rituali dell’adolescenza, mentre lui è risucchiato da un passato che ritorna malinconico e violento. Lettere, cartoline, foto, messaggi in segreteria, perfino un maglione peruviano fatto arrivare in un pacco postale.

«Stanno stringendo il cerchio, anche se non capisco il perché. A chi può interessare, più di vent’anni dopo, scavare nel passato di un uomo di mezz’età, il cui viso di allora sembra quello di un altro?

Un uomo in regola con tutto, che ha imparato a tacere anche quando vorrebbe parlare, per paura  che una frase pronunciata d’istinto lo possa tradire.»  

   Qualcuno conosce il suo passato e lo impugna come un’arma. Qualcuno si rivolge a lui con astio ricattatorio, impossibilitato a capire oggi, i percorsi mentali che motivarono le scelte estreme e intransigenti di allora, come fossero codici indecifrabili di cui si è perso l’alfabeto che ne sta alla base.

«Era l’epoca degli “ismi”, ti ricordi? Non solo comunismo, ma anche internazionalismo, antifascismo, estremismo, dogmatismo, materialismo e, ancora, femminismo, maschilismo, revisionismo, movimentiamo, partitismo, continuiamo… Ce ne sarebbe da lastricare una intera via di Roma.» 

Improvvisamente la paranoia gli si incolla addosso. Prende precauzioni di cui aveva dimenticato le regole. Torna naturale cercare cimici nelle camere d’albergo, muoversi con  taxi e auto a noleggio, rifugiarsi solitario in una sorta di covo, un appartamento disabitato di cui è proprietario.

«L’appartamento sta al quarto piano di un condominio piuttosto grande, uguale ad altri costruiti in serie all’ombra di una specie di grattacielo… Sembra una barriera protettiva. Sul campanello ho messo un cognome falso, non si sa mai.»

 È un’inesorabile deriva di cui conosciamo l’origine, ma ignoriamo i territori che arriverà a  occupare. Calvesi sprofonda in un microcosmo di vissuto giovanile che lo isola dalla famiglia e dal lavoro, elementi che di colpo si rivelano come un presepe artificiale costruito nel corso della maturità, rinnegando i propositi che avevano animato gli anni fondamentali della sua vita. Quelli giovanili. È la rimozione  di una parte del vissuto di Calvesi a rivelarsi essa stessa violenza, castrazione. Quei tempi erano stati folli e tragici, ma anche puri, vitali e forse inevitabili.

   Chi, a distanza di venticinque anni, chiede conto delle sue scelte? Compagni vendicativi, familiari di vittime, servizi segreti che tramano per indicarlo come Grande Vecchio del nuovo terrorismo?

   È davvero possibile passarla liscia?

   E soprattutto, quanto è disposto a sacrificare nel nome della pacificazione sociale e personale?

 

Saverio Fattori