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PER SEMPRE E SEMPRE E SEMPRE

Un delirio di Gianni D’Attis

 

Mio marito è morto. Io lo amavo moltissimo e lui è morto che era un bell'uomo estremamente sensibile e tormentato. Solo ora posso capire pienamente la sua angoscia, o almeno credo di poterlo fare razionalmente, di avere la forza necessaria per persuadermi che lui avrebbe desiderato essere una persona buona e gentile con tutti.

"Per sempre e sempre e sempre", ecco cosa diceva J.

J. era un padre e un compagno affettuoso. J. amava la sua mazza da baseball, il caffè forte senza zucchero, i vecchi film con James Cagney e le storie di fantasmi e più di tutto amava trascorrere ogni momento libero con il nostro piccolo D.

  "Ehi, D., vieni un attimo da me!"

  "Sì, papà."

  "Sei stato bravo, oggi?"

  "Certo, papà."

  "Allora forza, salta in braccio e fatti dare un bacio..."

  "Papà?"

  "Sì, D.?"

  "Tu non faresti mai del male a me e alla mamma, vero?"

   È vero, J. non lasciava trapelare molto dei suoi sentimenti (penso che avesse problemi a relazionarcisi) ma a volte, giuro, sapeva incantarmi irradiando una gioia contagiosa. Così, inaspettatamente. Poteva schioccare le dita e uscirsene con l’idea di metterci in macchina per una gita al lago fuori programma: "Via dalla porca città, tesoro." Oppure tornava a casa, accendeva la radio sintonizzandola su una stazione specializzata in danzabili dei tempi della nonna e dopo aver alzato il volume al massimo si metteva a urlare: "Sai, questa è la prima e ultima volta che ti permetto di criticare il mio stile di ballo!"

   J. in pantaloncini corti e calzini gialli che storpia le parole di You still believe in me dei Beach Boys il giorno del suo trentottesimo compleanno. J. che sospira teatralmente, compie un ampio gesto per controllare l’orologio e dice: "La stanza 237 puzza del tempo che passa." E ride di gusto. Andava pazzo per le freddure di questo genere.

   Ma l’angoscia non gli dava tregua. Lavorava dentro per cancellargli dalla faccia anche l’ultimo sorriso e le belle frasi che pensava di mettere in fila per costruire un romanzo. Il nostro inverno tra le montagne segnò l’inizio della discesa vera e propria.

   Barbablù? Il Lupo Cattivo?

   Il dottor K. (ebreo del Bronx) parla di disturbi emotivi non identificati. Roba che avremmo potuto curare, se solo si fosse manifestata gradualmente, un passo per volta, non come un processo psicotico con il piede schiacciato sull’acceleratore.

   La neve, l’isolamento, il blocco dello scrittore...chissà.

   Ho trovato l’abbozzo di una lettera scritta a macchina. Non c’è la data. Forse J. provò a fermare sulla carta i suoi ultimi pensieri coerenti, poco prima del disastro:

 

Cara W.

questa stanchezza immane, questo tremendo mal di testa non aiutano la troia sintassi, l’ordine delle parole e il loro fottuto significato. È un duro lavoro, voglio che tu lo sappia. "All work and no play", come diceva il personaggio di quel film di cui adesso non ricordo più il titolo.

C’è un battitore, qui dentro. La sensazione che la testa possa esploderti come un palloncino pieno d’elio è tremenda. Niente lanci di riscaldamento, mi spiego? Il figlio di puttana che saltella nervosamente da un piede all’altro roteando la mazza guarda di soppiatto un uomo che si toglie la giacca nella tribuna superiore. Lo sta sfidando. Ci sta sfidando tutti quanti, il bastardo. Sputa per terra, indifferente al brusìo della folla. Prenderci gusto, ecco la definizione giusta. Dio mi perdoni. L’idea di perdere te e D. mi uccide. È come se mi avessero invitato a un gran galà, ma non riesco ad indovinare il nome del mio ospite. Malgrado tutti i miei sforzi, c’è sempre un dettaglio che mi sfugge...

 

   La neve, la radio rotta e i segni sul collo di D.

   L’albergo.

   Pregavo affinché qualcuno venisse a salvarci mentre l’umore di J. peggiorava di ora in ora.

L’idea di perdere te e D. mi uccide.

   Posso credergli, adesso?

   Il dottor K. ha allargato le braccia. Ha detto: "Non saprei, sotto un certo punto di vista il caso di suo marito sembrerebbe condurre alla classica situazione del padre che odia il figlio."

   Lui diceva: "Cazzo, non è giusto. Se penso che in questo momento c’è un sacco di gente che sta facendo i soldi con i libri non è giusto manco per il cazzo. Prendi quel tipo del Maine che scrive horror. D’accordo, il ragazzo ne ha passate tante. Serviva da bere sui traghetti, ma adesso è ricco sfondato!"

   Non ce l’aveva con D., il nostro bambino. Probabilmente immaginava se stesso come un uomo intelligente e scalognato.

  "Priorità numero uno", secondo il dottor K. " è surgelare i sensi di colpa in attesa di giorni migliori per poterli affrontare."

   Alla fine della frase l’ho sorpreso a fissarsi un pollice. "Mi scusi" ha fatto. "Non era mia intenzione ferirla con una gaffe chiaramente grossolana."

   Surgelare. Congelare. Agghiacciare.

   J. era un tesoro. Non riesco a capacitarmi che un uomo così buono abbia fatto una fine orribile.

   Una volta, solo una, J. prese il braccino di D. e...

   Fu un incidente?

   Quando ho girato la domanda al dottor K. c’è stato un lungo, imbarazzante silenzio prima della risposta.

Prenderci gusto, ecco la definizione giusta.

  "Dipende da cosa intendiamo per incidente" ha concluso. "Gli incidenti che si manifestano come risposta a date situazioni variano per la loro natura e per la loro struttura secondo la situazione e l’individuo. Gradisce una tazza di caffè?"

   Non riesco a dormire se ne bevo anche solo un sorso dal pomeriggio in avanti. Questo non l’ho detto al dottore, per non essere scortese. Ho annuito e l’ho visto alzarsi, tendere l’orecchio in direzione della cucina e gridare: "Caffè!"

Il dottor K. È okay. Il tipo di persona che riesce a sembrare a riposo anche quando è in piena attività. Ha gli occhi miti e gentili. Occhi che ti scrutano dentro con aria attenta e calma prima di porre la domanda più atroce: "Sei stata tu?"

   L’ha detto davvero? Dio, l’ha pronunciata. Me l’aspettavo e non me l’aspettavo, in tutta sincerità. Comunque ci sento benissimo, ci mancherebbe altro. Il dottore non ha esitato un secondo. Ha detto: "Sei stata tu?"

C’è un battitore, qui dentro.

   Stronzo. Ce l’ha scritto in faccia che non crede al mio dolore. Ma ci vuole coraggio. Mio marito è morto. Ripeto: io l’amavo, l’amavo, l’avrei amato per l’eternità. Gravitavo intorno a J. Lasciavo che la sua forza, i suoi coups de théâtre risucchiassero ogni briciola di energia dal mio corpo per far spazio alla meraviglia, al disorientamento.

C’è un battitore, qui dentro.

   Il mio amore per lui mi rendeva debole, ma c’è di che essere riconoscenti ancora adesso che J. non è più tra noi.

   Riposi in pace. Per sempre.