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TIM McLOUGHLIN: Via da Brooklyn (Marsilio, pp. 272, € 13,50; traduzione di Lea Maria Iandiorio) 

 

«Le persone di periferia sono i veri newyorkesi»

 

TIM McLOUGHLIN: Via da BrooklynSouth Brooklyn, N.Y., dalle parti di Quei bravi ragazzi di Scorsese e dello Spike Lee più duro. Al semaforo tra la Quindicesima West e Mermaid c’è una sventola da sogno, praticamente la controfigura di Whitney Houston. Quasi. Guardandola bene, ti rendi conto di avere davanti un mostro. La domanda giusta è: cosa hai buttato giù, stanotte?

   Questa è la storia di Mike, giovane solo anagraficamente, diviso tra i corsi serali al college e un lavoro nella compagnia di taxi di Big Lou, il ciccione sul quintale incastrato dietro una scrivania che sembra “un campo da football realizzato in mogano”. Mike ha diciannove anni, un padre perennemente sbronzo che lavora alla nettezza urbana e arrotonda con le scommesse e una (eterna) fidanzata che rompe per essere portata presto all’altare. I suoi amici si chiamano Nicky, Danny, Sal o Little Joey. Il primo è un tossico, il secondo un cristiano rinato che si lascia tentare dalla moglie ninfomane di uno squilibrato (Philly Zak, “un completo animale”), gli altri non sono di sicuro anime candide. Come Mike, sono cresciuti laggiù, tra neri, ebrei, portoricani, puttane e assassini, in quella zona senza legge dove in piena notte può capitarti di sentire lo schianto di una Buick Regal nuova di zecca sulla Sessantanovesima Strada, correre di sotto e non trovare nessuno al volante. Chi scappa altrove, magari nel New Jersey, guarda con un certo sospetto quelli che rimangono: «Credimi, non puoi voler veramente crescere i tuoi figli lì». È da pazzi, certo. Per quanto sia un tipo da cazzate notturne in piena ciucca e postumi pesanti, Mike è abbastanza sveglio da sapere come gira il fumo. Questa è la sua fetta di New York, controllata da Tony il boss, abitata da subumani o più semplicemente da esseri che per sopravvivere non hanno bisogno di ricorrere al divano dell’analista come predica un certo Woody ‘Mr. Noia’ Allen da Manhattan. Gli stessi angoli nei quali è cresciuto il quarantaduenne Tim McLoughlin, esordiente che non aveva mai pensato di fare lo scrittore fino alla svolta cruciale (diversi i punti di contatto con le vicende biografiche del suo protagonista) e a questo strepitoso debutto (in originale: Heart of the old country, con uno sforzo minimo potremmo immaginarlo come un titolo alternativo a Gangs of New York). Una rivelazione assoluta, un nome da appuntarsi da qualche parte, magari nella sezione ‘Modesti Apprezzabili’, dal momento che dichiara: “È troppo presto per dire se questo sia il mio stile di scrittura perché non ho fatto niente altro”.

   Il romanzo ha ritmo, dialoghi, atmosfere di altissimo livello (un altro centro pieno per la collana Marsilio Black!). C’è sangue, la violenza arriva all’improvviso, dopo battute fulminanti da piegarsi in due dalle risate come nell’episodio di Danny, scandito dalle sentenze di Sal circa il potere del sesso femminile: «Quel triangolino è più potente di una colonna di fottuti carriarmati. Gli eserciti vanno in guerra per lui. I re abdicano. Le nazioni si distruggono, cazzo. Tutto per quel maledetto triangolino. (…)». Prima si ride, poi arriva un gancio alla Jake La Motta. Fa male. Un male da restarci secchi, garantisco. K.O. sulla pagina e avanti un altro.

   Thriller o romanzo di formazione? È una bella storia, spietata e disincantata nella descrizione di una quotidianità sordida, narrata senza fronzoli né ammiccamenti, tutto qui. Al termine della lettura, la domanda diventa: a quando la seconda prova di McLoughlin?

(N.G.D’A.)

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