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HUNTER S. THOMPSON: Screwjack (Baldini Castoldi Dalai, pp. 64, € 8,00; traduzione di Marco Rossari)
 

HUNTER S. THOMPSON: Screwjack

Ordina da iBS Italia

Correva l’anno 1991, quando Hunter S. Thompson pensò di pubblicare tre racconti in un’edizione a tiratura limitata: 326 copie in tutto, 26 delle quali con copertina in pelle. I tre gioielli contenuti nella breve raccolta erano Mescalito; Morte di un poeta e Screwjack, ora tradotti in Italia da Baldini Castoldi Dalai, editore che ha il grande merito di aver presentato al pubblico di casa nostra anche Cronache del rum (2007). Un bel rischio, e una bella sorpresa, non c’è che dire.

   Gran parte del lavoro di Thompson è ancora sconosciuto ai lettori italiani, da The Curse of Lono (1983) ai quattro volumi dei Gonzo Papers, apparsi negli Stati Uniti tra il 1979 ed il 1994, poi The Fear and Loathing Letters (altri due tomi usciti tra il 1997 e il 2000, mentre un terzo, The Mutineer: Rants, Ravings, and Missives from the Mountaintop 1977-2005,  dovrebbe vedere la luce in America proprio nel 2008);  Kingdom of Fear: Loathsome Secrets of a Star-Crossed Child in the Final Days of the American Century (2003) e Hey Rube: Blood Sport, the Bush Doctrine, and the Downward Spiral of Dumbness Modern History from the Sports Desk, del 2003. Anche se volessimo fermarci ai racconti, sappiamo che fin dagli anni ’50, lo scrittore di Louisville pubblicò sulle riviste più disparate un gran numero di short stories.

   Gli sfaccendati lettori di casa nostra dovrebbero leggere Thompson, tra i massimi esponenti della cultura americana. Ignorarne l’esistenza, la portata devastante del suo lavoro, significa consegnarsi ad altri decenni di ignoranza. Esagero? Neanche per idea. In una nazione che, tanto per cominciare, non conosce Giancarlo Fusco e che considera giornalista Bruno Vespa, niente è davvero esagerato.

   Anarchico, iconoclasta, ingestibile dalle redazioni dei giornali che si onorarono di averlo tra le loro firme; prematuramente scomparso nella sua residenza di Woody Creek, Colorado, il 20 febbraio del 2005. Paul William Roberts, in un suo articolo sul Globe and Mail del 26 febbraio 2005 sostiene che al momento della dipartita Thompson aveva per le mani una storia sugli attacchi al World Trade Center dell’11/09/2001 e che, scavando un po’, pare avesse trovato una prova sul crollo delle torri dovuto non agli aerei dirottati, piuttosto alle cariche esplosive sistemate alle loro fondamenta.

   Leggenda?

   Forse H.S.T. non aveva mai dimenticato il suo stesso postulato: meglio del sesso c'è solo il potere. Meglio del sesso è diventare Presidenti degli Stati Uniti d’America.

   E anche qui, a pagina 32 di questo delizioso carnet di storielle: “Nixon ha spedito la legione Condor a Berkeley…sorridi…e dai rilassati, sorseggia quel drink.”

   La verità può essere scomoda, può apparire addirittura folle, magari frutto di un brutto trip, ma è sempre necessaria.

   Immergersi nelle sue pagine, nei suoi deliri, è un’esperienza imprescindibile poiché Thompson (o Raoul Duke, Dr. Gonzo, Dr. Duke, in qualunque modo vogliate chiamarlo) è pensiero lanciato a 400 Km/h per sfidare i limiti della deontologia giornalistica, del naturale ordine delle cose nella scrittura.

   A Thompson, come a Lester Bangs, Norman Mailer, Nick Tosches, Tom Wolfe, Truman Capote, il mondo deve, tra gli anni ’60 e ’70, il rinnovamento del ‘new journalism’, definizione che negli ultimi due decenni dell'Ottocento aveva indicato un giornalismo divertente, focalizzato sulle storie, iniziato dal World di Joseph Pulitzer (1883) e dal Journal di Willliam Randolph Hearst (1895).  Il contributo del nostro eroe alla causa fu il  ‘gonzo journalism’, stile di scrittura che mixa giornalismo convenzionale, impressioni soggettive e trovate narrative per generare un personale punto di vista su fatti e circostanze. Buttarsi a capofitto: nel posto giusto, al momento giusto, più o meno. E se non sei nel posto giusto, al momento giusto, al diavolo tutto, puoi sempre inventarti qualcosa. DEVI inventarti qualcosa: sei un uomo che ha stile. Sei un cazzone che, oltre al fegato, si ritrova il serbatoio pieno di ironia. Sei come Iggy Pop quando canta: “I am the passenger and I ride and I ride / I ride through the city's backsides / I see the stars come out of the sky / Yeah, the bright and hollow sky / You know it looks so good tonight…” E siccome appartieni alla stessa razza dell’Iguana, sai che un seminario di scrittura autobiografica nato con l’intento di favorire il riconoscimento e la promozione delle capacità narrative delle persone, se non è merda fritta poco ci manca. Tu puoi fare di meglio. Tu sei quello che, a bordo di una magnifica Chevrolet decappottabile rossa e in compagnia di un avvocato samoano completamente sciroccato, ha visto il lato pacchiano del Sogno Americano  in una corsa motociclistica nel deserto e poi a Las Vegas, la città dei balocchi dove Bugsy Siegel  inaugurò nel 1946 il Flamingo Hotel.

   Pensateci un attimo: se l’Italia è un posto tristemente affollato di  Anselme che salvano pappagalli dai cassonetti della spazzatura, di romanzi giovanili di formazione chiusi in appartamenti da eterni post-adolescenti, la colpa è anche di tutte le scuole, workshop, itinerari di lettura, corsi online o per corrispondenza che continuano ad ignorare cose come: “Una luce fantastica ricopre tutto, lucidando e incerando con una patina speciale…e l’effetto sul fisico ricorda la prima mezz’ora in acido, una specie di ronzio diffuso, la sensazione di venire afferrato da qualcosa, una vibrazione interna senza segni o movimenti esteriori. È incredibile che io riesca ancora a scrivere. Ho la sensazione che io e la macchina per scrivere abbiamo sconfitto la forza di gravità; l’aggeggio fluttua davanti a me come un giocattolo fosforescente. Bizzarro, che riesca ancora a digitare le parole…certo, per scrivere «bizzarro» c’è voluto un secolo…”

 

Nino G. D’Attis