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WILLIAM T. VOLLMANN: Come un’onda che sale e che scende  (Mondadori, pp. 941, € 22,00; traduzione di Gianni Pannofino)
 

WILLIAM T. VOLLMANN: Come un’onda che sale e che scende

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La morte ci riguarda, la morte, specialmente se violenta, ci interessa. Oggi come ieri, forse in misura maggiore, di sicuro in maniera profondamente diversa, nel passaggio da un teatro della morte (gli spettacoli circensi dell’antica Roma, un’impiccagione o una decapitazione in luogo pubblico, poniamo) ad una virtualità della medesima, sia essa diffusa dal mezzo televisivo che dal web, sia essa ripresa dalle telecamere della CNN o dal videofonino di un tredicenne capitato per caso sul luogo di una tragedia.

   La percezione della morte attraverso i mass-media si configura come modificazione radicale del sentire, della morale comunitaria. Che la Tv del dolore abbia sensibilmente scomposto il modo che abbiamo di riflettere sugli avvenimenti più drammatici è un fatto che rende praticamente nulle analisi più profonde: riceviamo immagini di vittime di un terremoto, di un conflitto a fuoco a Secondigliano, della guerra di Bush, e siamo sempre spettatori anestetizzati dalla distanza, dal filtro del commentatore di turno, dal servizio a seguire sull’ultima fiamma del principino William d’Inghilterra. Pure, la morte è quanto ci resta di reale nella vita di tutti i giorni, dall’alba al tramonto, dal sorriso di un neonato agli sforzi dell’ottuagenaria del piano di sopra che non ci vede più e fatica a salire le scale se l’ascensore è fuori uso. La filtriamo attraverso il cinema o i romanzi, per mezzo delle canzoni (a volte anche un pezzo pop può affrontare il triste argomento), siamo pronti a tirarla in ballo alla fine di una storia d’amore (“la nostra relazione è morta, questo è il funerale di una bella storia!”). La morte è un soggetto universale. L'universalità della morte, dice l’uomo della strada, ci rende nudi e pertanto tutti assolutamente uguali.

   Lo scrittore William T. Vollmann, nato a Santa Monica, California nel 1959 e conosciuto finora in Italia da una ristretta cerchia di estimatori per tre raccolte di racconti edite da Fanucci e per Puttane per Gloria (Mondadori, 1999), ha dedicato parte della sua vita ad un ambizioso trattato sulla violenza in sette volumi per un totale di 3.300 pagine che in originale si chiama Rising Up and Rising Down. L’edizione ridotta della versione integrale (messa insieme per soldi, dichiara l’autore nella prefazione) è in ogni caso un’opera che, come ha ben notato Marco Philopat recensendola per XL, emana puzza di cadavere ma soprattutto ha il pregio di rimuovere l’astratto, i termini teorici dell’analisi storico sociale della violenza, per inoltrarsi nel campo della testimonianza pura.

   Per molti anni, mentre quotidianamente venivamo a conoscenza di attentati, infanticidi, stragi nelle scuole ed altri orrori, Vollmann, già autore di un reportage sull'invasione sovietica dell'Afghanistan (An Afghanistan Picture Show, or, How I Saved the World) ha camminato, visto e descritto, mettendo rigorosamente da parte il narratore. Nei panni del testimone-Caronte che abolisce la letteratura per entrare nel mondo, Vollmann riesce a condurci nel dedalo delle catacombe parigine, nel posto di lavoro di un coroner, poi in Bosnia, dove una mina ha ucciso due suoi amici, poi ancora in altri luoghi dove la bellezza viene a contatto con la morte violenta. E giunge ad interrogare figure del passato come Platone, Giulio Cesare, San Tommaso, Robespierre, Lenin, Hitler, Gandhi, PoI Pot e Martin Luther King. Così, dentro Come un’onda che sale e che scende confluiscono l’indagine sociologica, il reportage, il saggio di storia contemporanea (intorno ad una contemporaneità infettata dal fascino per le armi) e riflessioni sulla percezione della paura da un capo all’altro del globo: “Dal punto di vista dei miei amici europei, la passione dei nordamericani per le armi da fuoco è un segno di barbarie. Gli europei vivono in genere in un contesto di servizi sociali pubblici, dove il cittadino, di solito, è politicamente e storicamente più cosciente del suo omologo americano. La sanità, la casa, la sicurezza eccetera sono più o meno garantite dallo Stato. In poche parole, il contratto sociale è tanto efficiente quanto efficace.” E, ancora: “Credo che le stragi commesse l'11 settembre siano ingiustificabili, crudeli e sbagliate. La grande maggioranza della gente che ho conosciuto nello Yemen l'anno successivo le considerava giustificabili. Come costruire un ponte empatico tra noi e loro? Innanzitutto, possiamo considerare le nostre non giustificazioni in rapporto alle loro giustificazioni. Nella peggiore delle ipotesi, avremo praticato l'empatia, che è sempre una buona cosa e, per la mia mentalità, il supremo principio delle relazioni umane; nella migliore, avremo ricavato informazioni utili sul da farsi.”

   Opera coraggiosa e terrificante più che per gli eventi descritti, per la domanda di fondo che attraversa tutte le sue pagine: Quando la violenza è giustificabile? Perché Vollmann scrive: “Lo scopo che mi sono dato all’inizio di questo libro è stato quello di elaborare un sistema di calcolo morale tanto semplice quanto pratico che chiarisse quanto è accettabile uccidere, quante persone si possono uccidere e così via.” E ha fegato da vendere, sincerità che spiazza, mette fuori gioco chiunque abbia difficoltà (ipocrite) ad inquadrare seriamente tanto il discorso delle vittime quanto quello dei carnefici. Persone le une, persone le altre: l’atto violento è ciò che sta nel mezzo, una volta accertato che l’intera storia del mondo è la storia della violenza provocata o subita.

 

Nino G. D’Attis