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DEPECHE MODE TOUR 2005-2006
 
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JONATHAN MILLER: Stripped  (Castelvecchi, pp. 603, € 26,00; traduzione di Rita Balestra, Simonetta D’Alessio, Cristina Mari, Patrizia Negri, Caterina Pascot)
 

Jonathan Miller: Stripped

Ordina da iBS Italia

Cinque traduttrici, un revisore ed un caporedattore possono essere una grande squadra all’interno di un progetto editoriale. Tuttavia, nel caso della corposa ed interessante biografia di Jonathan Miller dedicata ai Depeche Mode, è richiesta una buona dose di pazienza (e anche un pizzico di umorismo) per affrontare sviste e strafalcioni madornali che affiorano in diverse pagine del testo. Succede, ad esempio, che Heroes, uno dei dischi più famosi di David Bowie, diventi “Herpes”; che la ragione sociale dell’etichetta discografica americana Reprise si trasformi in “Reprime”, oppure che il cantante Rod Stewart diventi “Rod Steward”. I fans perdoneranno. Se gli argomenti in questione sono la vita e le imprese di uno dei gruppi più longevi del pianeta, una band che proprio per l’anno 2009 ha preparato una mastodontica offensiva con un nuovo album (Sounds of the Universe, dodicesimo titolo in studio, al netto di live e antologie) ed un faraonico tour mondiale in partenza il 10 maggio dal Ramat Gan Stadium di Tel Aviv, alla fine vince la sostanza. Tanta, nel mattone scritto da Miller, giornalista freelance britannico che ha attinto in egual misura a testimonianze di prima mano e ad una mole non indifferente di articoli, interviste, recensioni, senza peraltro disdegnare le fonti del web (cosa che ai nostri occhi fa risaltare una volta di più l’atteggiamento ottuso e anacronistico degli uffici stampa italiani di colossi discografici refrattari al dialogo con le riviste online).

   Insieme a Black Celebration di Steve Malins, edito in Italia nel 2006 dalla Chinaski, questo volume rappresenta un approccio serio ai Depeche Mode: l’aneddoto non scivola mai nel pettegolezzo spicciolo, più importante è la musica di quei ragazzini di Basildon, Essex che nel giro di tre album riuscirono a svincolarsi dall’etichetta di boy-band per intraprendere un percorso nuovo, adulto e affascinante.

   Diversi dai Duran Duran, dagli Spandau Ballet, da un numero imprecisato di meteore del decennio ’80. Guidati da santi protettori come Daniel Miller (più che un discografico, un fratello maggiore), il fotografo/videomaker olandese Anton Corbijn; i produttori Gareth Jones, Flood, Tim Simenon, gli amici ed ex soci Vince Clarke ed Alan Wilder che in momenti differenti della storia del gruppo hanno affrontato con genio e spirito di sacrificio il lavoro in studio di registrazione. Baciati dalla fortuna (il talento da solo non basta, è risaputo) grazie all’exploit in Germania di Construction time again nel 1983 (Andy Fletcher: «Non abbiamo mai pensato che la nostra musica avesse delle sfumature vagamente tedesche. Se si ascolta la musica tedesca…Non vedo il collegamento.») ed il proselitismo negli Stati Uniti agevolato dalle nascenti emittenti radiofoniche dei campus universitari.

   L’arco di tempo analizzato da Miller corre dagli esordi con il singolo Dreaming of me / Ice machine (1982) - dopo i primi tentativi sotto la sigla Composition Of Sound - alla prima, non proprio felicissima sortita in veste di solista del frontman Dave Gahan con Paper Monsters (2003). Chiude su un’istantanea dei Depeche Mode colti in un periodo di crisi destinato a risolversi con nuova linfa, una volta esorcizzato lo spettro dello scioglimento, solo nel 2005, anno della pubblicazione di Playing the Angel. In mezzo ci sono le ambizioni, i tentativi di mettere a fuoco uno stile personale e di emergere in patria e fuori, la consacrazione nella sfera delle stelle capaci di appassionare più di una generazione. C’è la storia dei brani più importanti della band, da Somebody a Enjoy the Silence. C’è l’attenzione suscitata presso musicisti di estrazione diversa: “A Detroit – casa della musica techno – le persone più influenti della scena musicale iniziavano a citare i supereroi di Basildon come i pionieri di quel genere musicale (insieme ai Kraftwerk e, in misura minore, a The Human League e New Order)”, si legge a pagina 294.

   La perizia dell’autore è notevole ogni volta che il discorso indugia sui dettagli tecnici del lavoro in studio e live (strumentazione, processi di registrazione ed esecuzione). Quanto basta, ça va sans dire, per far sprofondare di vergogna schiere di devote isteriche pronte a buttarsi pateticamente sotto le ruote delle berline che scarrozzano Gahan, Fletcher e Gore da un concerto all’altro. La musica, non l’ancheggiare del cantante conta alla fine: Dave Gahan lo sa, visto che la fama ha rischiato di bruciarlo. Leggete questo libro: trascurando le carenze dell’edizione italiana, vale comunque il prezzo di copertina.

 

Nino G. D’Attis

http://www.millermusicandmedia.com/