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TOMMASO PINCIO: CINACITTà (Einaudi, pp. 340, € 17,00)

 

Tommaso Pincio: Cinacittà

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Caro Tommaso Pincio,

in una recente intervista, alla domanda “Il libro (di un altro) che avresti voluto scrivere” ho risposto senza esitare La Ragazza che non era lei. E ogni volta che si annuncia la pubblicazione di un tuo nuovo lavoro, penso con grande ammirazione al contributo che i romanzi che scrivi stanno donando alla letteratura prodotta in Italia attraverso storie bellissime sostenute da una prosa viva, profonda, condita di humour amaro: lampi di pensiero, di pura ispirazione contro la cappa di mediocrità che ristagna in libreria. È la tua capacità di raccontare  il mondo in cui viviamo, l’umanità con i suoi piccoli e grandi difetti, con il suo fardello sempre più pesante di paure, nevrosi, dolori a incantarmi.

   Il seme gettato nel 1999 con M., l’esordio pubblicato da Cronopio, è diventato un albero forte e rigoglioso  proprio nelle ultime due prove. Ricordo il  De Kaard,  cacciatore di stencil a Neu-Berlin, il lavoro sul tempo narrativo, il  personaggio del prestencil (un bambino di nome Tommaso Pincio), i rimandi stratificati ad altre opere letterarie come Un oscuro scrutare di Philip K. Dick o L'Arcobaleno della gravità del tuo quasi omonimo Thomas Pynchon. Ricordo di aver letto quel tuo primo libro ascoltando e riascoltando una cassetta che conteneva gli album Thirst e Digital Soundtracks dei Clock DVA.

   Con Cinacittà ci hai appena consegnato un noir spostato nel futuro ma gravido delle fobie del presente: gli altri, gli stranieri, i cinesi, quelli che ci stanno invadendo, i «barbari del terzo millennio», quelli che calamitano l’indignazione che dovremmo provare verso altre cose, quelli che rendono legittima la nostra aggressività. Hai rinchiuso un uomo nel carcere di Regina Coeli, uno degli ultimi romani rimasti nella Caput dopo il grande esodo legato all’aggravarsi dei cambiamenti climatici. La città che hai immaginato è una fornace che brulica di vita solo di notte riportando alla mente la metropoli avveniristica vista in Nirvana di Gabriele Salvatores. Il Tevere non è più un fiume ma un fossato riarso adattato a discarica. Il fastoso Grand Hotel Excelsior è diventato un condominio decrepito gestito dal signor Ho (e i cinesi pensano erroneamente che la la suite 541 sia stata il teatro del suicidio di Kurt Cobain). Ci sono fumerie d’oppio (le frequenta quel fricchettone che il protagonista si ritrova suo malgrado come avvocato); in un go-go bar chiamato La Città Proibita (sorto al posto di un negozio di abiti da sposa a Piazza Vittorio), gli uomini si innamorano perdutamente di puttane orientali che ancheggiano al ritmo di vecchi successi pop. Signorine tossiche dagli occhi impiastricciati di nero per mascherare le occhiaie. Carne. Merce. Simulacri di spose e madri: guai a ingannarle, pena l’evirazione.

   La Roma di Fellini, Mastroianni, Flaiano, Pasolini, persino quella del lancio delle monetine a Bettino Craxi davanti all'hotel Raphaël è solo un ricordo affidato alle pagine di Wikipedia, alla cultura enciclopedica del misterioso Wang e alla mente di questo tizio svogliato, avvezzo all’indifferenza (soprattutto nei riguardi del proprio tragico destino), accusato dell’omicidio della sua amante Yin, giovane e magnetica prostituta cinese. Pure, nel corso della sua lunga confessione autobiografica (che a tratti riporta alla mente quella del tabagista Cosini ne La Coscienza di Zeno di Svevo) l’io narrante riflette su alcune caratteristiche di Roma e dei romani che non cambieranno mai: “A Roma, prima o poi ci scappa il morto. È scritto nel codice genetico di questa città. Dalle nostre parti ha funzionato sempre così: prima si discute, poi ci si scanna. Romolo e Remo, per esempio. Discutevano su tutto. Su dove fondare questa fogna di città, sul nome che dovevano darle e su un sacco di altre cose.” E, qualche rigo più sotto: “L’altra caratteristica saliente di Roma è che è un troiaio.”

   Leggi frasi del genere e sorridi. Ci rifletti su una frazione di secondo e ti ritrovi assolutamente d’accordo: sì, l’Urbe, la Caput, la “temibilissima chimera” o in qualunque altro modo la si voglia chiamare è davvero un troiaio. Sempre che tu viva a Roma, si capisce. Un turista non potrebbe mai sottoscrivere (perciò continuate pure a rifilargli la vecchia versione della storia della Lupa, via Veneto, l’Isola Tiberina, Campo de' Fiori, etc.). Neppure il sindaco in carica, presumo: arduo figurarsi un rispettabile primo cittadino pronto a dichiarare pubblicamente che in effetti, pensandoci bene, la sua città è un covo di donne di malaffare. Metaforicamente o in senso letterale, you know…

   Non voglio dire di più sulla trama, su ciò che questo romanzo meraviglioso e attualissimo, costruito con singolare perizia narrativa riesce a suscitare nel lettore catturato dal lungo flashback che comincia con la domanda: “Ma i romani esistono davvero?”. Sembra il titolo di un reportage per un qualsiasi settimanale ad alta tiratura (beh, il tuo primo attore non arriva forse a spacciarsi per un giornalista?), invece è l’incipit di un viaggio poetico e infernale intorno all’immutabilità di certe imperfezioni umane, il memoriale di un mammifero negligente e in esilio nel suo stesso mondo, poi ancora un libro che parla di derive, patologie, di dubbi e malintesi, di sconvolgimenti non solo climatici. Non dirò di più, a parte un sentito Grazie a te, ancora una volta, Tommaso Pincio.

 

Nino G. D’Attis

www.tommasopincio.com